martedì 7 agosto 2012

Un'esperienza di confine. Intervista a Severino Saccardi

Parla Severino Saccardi, direttore di Testimonianze, la rivista fondata da Ernesto Balducci nel 1958

L’attività pubblicistica, insieme a un impegno civile più ampio, porta a rivalutare l’importanza della dimensione pubblica in un tempo che suggerisce sfiducia e ripiegamento sul privato

di Paolo Calabrò

Severino Saccardi, già consigliere della Regione Toscana per il centrosinistra, è direttore del bimestrale fiorentino «Testimonianze», fondato da padre Ernesto Balducci. Gli abbiamo chiesto di parlarci del ruolo che ha avuto con il grande pensatore fiorentino all’interno della rivista.

Padre Ernesto Balducci muore venti anni fa dopo una vita di impegno culturale, sociale, teologico, filosofico. Chi era quest’uomo che i più conoscono solo come teorico dell’”uomo planetario”?
«Posso dire di rivivere il ricordo di Balducci, come tanti che l’hanno conosciuto, in una doppia dimensione: quella della rilevanza pubblica, evidente anche se oggi a tratti meno presente (perché siamo in un’epoca dalla molta retorica della memoria, ma che poi ha poca o nessuna conoscenza del proprio passato prossimo), da un lato; dall’altro, la dimensione più personale: perché se c’è un aspetto poco conosciuto di Ernesto Balducci è che a fronte della sterminata rete di relazioni della sua vita civile e pubblica riusciva poi a coltivare anche tutta una serie di rapporti umani interni a quello che era un ambito esistenziale, spirituale, pastorale anche, per usare un termine tradizionale, con cui ha saputo dare nascostamente, o quanto meno riservatamente, a tante persone».
Un’esperienza che ha fatto in prima persona.
«Sì, parlo per esperienza personale, proprio per essermi giovato di questa relazione con lui; di più: io credo che questo aspetto fosse alla base di quella che era poi la sua immagine più conosciuta e la sua testimonianza a livello di pensiero, di esposizione pubblica delle sue posizioni, di impegno civile. Credo dunque che entrambi gli aspetti vadano tenuti presenti. Poi, per quel che riguarda l’aspetto più propriamente intellettuale - Balducci è stato un grande intellettuale, che ha scritto una quantità di articoli, saggi, ha fondato la rivista Testimonianze nel lontano 1958, ha scritto libri, ha fondato l’Editrice Cultura della Pace - ecco, credo che si possa dire che era un uomo che per la sua formazione, per la sua esperienza di vita, per scelta elettiva vedeva la cultura non tanto come qualcosa di afferente al “libresco”, o come questione d’erudizione (anche se era un uomo molto erudito, dagli amplissimi studi classici), bensì come una chiave per comprendere e trasformare la realtà. Credo che questo sia il suo lascito, oltre che il modo suo proprio di intendere e di vivere la fede cristiana: non dimentichiamo che Balducci era un prete cristiano, ma anche un uomo di spiccata laicità. Vorrei anzi usare questa formula: era molto laico proprio perché era profondamente cristiano. Fedele al monito evangelico per cui il seme non può dare frutto se non muore, in lui la dimesione storica era parte integrante e ineludibile della fede religiosa».
Testimonianze nasce oltre cinquant’anni fa proprio da Balducci. Com’era il contesto di allora?
«Io ovviamente non me lo ricordo in prima persona, allora ero bambino. Ma ne ho tanto sentito parlare da Lodovico Grassi, che ha contribuito a fondare Testimonianze, di cui oggi è direttore emerito; o da persone come Danilo Zolo, che è stato il primo direttore della rivista, fino al 1968. Dalla loro testimonianza si può appunto ricostruire quella storia, in cui Testimonianze nasce con un’istanza fondamentale: in un tempo in cui la realtà storica, culturale, la vita politica, civile e sociale erano segnate dalla cultura della contrapposizione - si era nell’era di Yalta, dei blocchi ideologico-politici - nella Firenze di allora c’era chi lavorava per costruire ponti, per così dire, là dov’erano barriere».
Come si inseriva la rivista in questo panorama?
«Testimonianze nasce all’insegna di questa sfida e lanciandola riuscì a mettere in dialogo interlocutori apparentemente distanti (come i comunisti, i socialisti, l’area cattolica e quella laica) ma le cui sensibilità convergevano, appunto, sul valore del dialogo e dell’opera comune. Rivista che invoca da subito il tono sommesso della testimonianza in opposizione a un cristianesimo compromesso con le strutture di potere. Quindi il recupero della dimensione evangelica e della spiritualità, non intesa come fuga dal mondo, ma al contrario come impegno nella sfera sociale. Testimonianze nasce così. Per attraversare successivamente varie fasi - intrecciate con la storia personale di Balducci - nelle quali la laicità degli inizi non farà che crescere. Una rivista mai schierata politicamente, ma sempre decisamente orientata (negli anni ’70 era molto vicina all’esperienza della sinistra indipendente, fino ad arrivare in Parlamento)».
Insomma: una rivista che cammina nella storia.
«E che, se posso dirlo senza autocompiacimento, ha saputo essere all’altezza delle sfide della storia. Perché va detto che se Testimonianze ancor oggi, in un tempo di grande crisi dell’editoria, riesce ad andare avanti (almeno per ora) è anche perché ha saputo entrare in contatto con la realtà in evoluzione e stare al passo. È la grande lezione di Balducci: non fare una rivista in cui si esprimano principi saldi e in certo modo immutabili, ma un luogo in cui le convinzioni si aprano al pluralismo e all’esperienza concreta dell’oggi».
Com’è l’esperienza della direzione di una rivista di questa tradizione e di questo prestigio?
«Diciamola nella maniera più semplice: è tanto lavoro. Perché c’è tanto di cui parlare e tanti nuovi modi per farlo, oltre alla carta stampata (mi riferisco in particolare alla multimedialità e alla rete: basti pensare che Testimonianze, oltre al sito internet (http://www.testimonianzeonline.com), ha un Blog (http://blogtestimonianze.blogspot.it/), un canale YouTube (http://www.youtube.com/user/testimonianze), un profilo FaceBook (http://it-it.facebook.com/Testimonianze)... non si finisce mai. Strumenti potentissimi ma che mettono alla prova di una interazione nuova, che non è facile comprendere e gestire. Ma credo che alla fine la questione fondamentale sia quella che anche Balducci si è trovato ad affrontare (ovviamente con la profondità tipica della sua vocazione spirituale e culturale): di essere cioè di fronte a un’esperienza di confine, al di là della rivista in sé (che pure è qualcosa di molto impegnativo: si tratta di raccogliere testi, curarli, presentarli, dar loro un’organicità, ecc.), un’esperienza in cui l’attività pubblicistica non è che una parte di un impegno civile più ampio: rapporti con persone, istituzioni, circoli... è una dimensione di frontiera che ti porta a rivalutare l’importanza della dimensione pubblica in un tempo che suggerisce al contrario sfiducia e induce al ripiegamento sul privato».
Qualche volta dunque ci si perde d’animo?
«La tentazione di scoraggiarsi è forte; ma credo che i segnali che provengono dalla gente siano sufficienti a ridare speranza: c’è una gran sete di cultura, di comprensione, di approfondimento, di un’attività sociale e di una politica che sappiano ricostruire l’identità e dare risposte alle attuali generazioni. Non a caso «Testimonianze» proporrà in autunno un convegno su temi di forte inattualità, fin dal titolo (caro a Balducci): “Se vuoi la pace, prepara la pace”. In cui si parlerà tra l’altro delle rivoluzioni arabe e della tragedia, ormai rimossa, della guerra nell’ex-Jugoslavia».
Ci racconti un aneddoto dei Suoi tanti anni di contatto con la gente, sia in cultura sia in politica.
«Uno per i tanti che si potrebbero raccontare. Un giorno, di ritorno con degli amici da un carcere che ero andato a visitare (eravamo all’epoca del mio mandato come consigliere regionale e quella faceva parte delle mie attività consuete), uno di loro mi disse: “ma perché mai continui ad andare in giro per le carceri? Questo qui non votano mica”. Lì per lì la presi come una battuta; poi riflettendo, mi resi conto della portata di quel commento. Perché spesso la politica si comporta proprio così: alla ricerca del consenso, si spinge a operare su terreni già dissodati, mentre tende a non occuparsi di quelli che ne avrebbero più bisogno. Ciò nonostante, non rinnego quell’esperienza (che per me è stata breve), che rifarei e che consiglio: impegnarsi in politica si può, e si può farlo bene».
Testimonianze parla spesso della pace, sembra non stancarsene mai. Ma che cos’è la pace per noi oggi? Un’utopia, uno slogan, un’imperativo morale, una necessità?
«Credo che non ci si debba scoraggiare di fronte all’altezza della parola o alla sua difficoltà di darle corpo in un’epoca in cui la pigrizia e l’isolamento sembrano avere la meglio. Innanzitutto perché questi sono i temi all’ordine del giorno: con queste cose - che ci pensiamo o no - ci troveremo a dover fare i conti. Tutto sta nel capire se vogliamo arrivarci preparati o meno. Ci troviamo di fronte ad avversari che - se valutati estemporaneamente - possono sembrar destinati a durare in eterno; ma che poi si rivelano caduchi, tanto più velocemente quanto più grande è l’impegno profuso in questa direzione. Ricordo che ai tempi della cortina di ferro Andreotti disse - con il suo tipico cinismo sarcastico - che amava talmente tanto la Germania da voler continuare a vederne due per tutta la vita. Nemmeno vent’anni dopo, il muro è crollato. La realtà è molto meno immobile di quello che potremmo credere: ritengo che le stesse rivoluzioni arabe, di cui parlavamo poco fa, lo mostrino con eloquenza. Credo di poter dire che l’evoluzione della realtà non conosce sbarramenti, ma solo battute d’arresto (e certo, tante miserie). La pace non fa eccezione. La differenza la facciamo noi».

(«l'Altrapagina», aprile 2012)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano