Ogni epoca ha, nel bene e nel male, le proprie “tipicità”. La nostra, fra le altre, possiede una sua peculiare forma di follia, che non è caratterizzata - come nei classici casi da manuale - dalla rottura dei rapporti normali con la realtà, ma da un’adesione eccessiva al quadro della normalità, dove «ogni passione si spegne e il soggetto scivola lentamente verso un adeguamento omogeneo della sua vita a quella imposta dal sistema sociale dominante. Il soggetto sembra indossi una divisa. È il grande problema che abbiamo con gli adolescenti di oggi» (M. Recalcati, Elogio del fallimento, ed. Erickson, 2011).
Ciò avviene perché gli adolescenti di oggi si trovano a vivere in una particolare condizione di disagio. Perché se è vero che la giovinezza è l’età del disagio per eccellenza (ciò è valso in tutte le epoche e in tutte le organizzazioni sociali), è pur vero che il nostro presente - sull’onda di una retorica capitalistica che pretende il successo a tutti i costi (se no sei un fallito, e tertium non datur), pur sapendo bene in anticipo che solo “uno su mille ce la fa” - radicalizza la paura del fallimento rendendolo inaccettabile. Ma poiché il fallimento fa parte a pieno titolo della dinamica dello sviluppo personale di ogni uomo - non vi è infatti nessuna garanzia che il soggetto sappia individuare e sviluppare al meglio le proprie potenzialità, da un lato; dall’altro, non vi è nessuna garanzia che l’Altro riconosca il nostro desiderio e lo accolga - disprezzarlo e temerlo conduce al rifiuto stesso del proprio desiderio, cioè della vita.
La follia contemporanea non appare come una distorsione della realtà, ma come un’adesione esagerata alla “normalità”.
M. Recalcati, Elogio del fallimento, ed. Erickson, 2011
Ecco che i nostri giovani rifuggono il rischio, gettandosi nelle braccia del conformismo; oppure, agli antipodi ma con lo stesso intento, si danno all’estenuazione del desiderio stesso, tramite ogni forma di esagerazione possibile. L’autore affronta anche il delicato e a sua volta tipicamente giovanile problema dell’anoressia, sgombrando il campo dai fuorvianti luoghi comuni sull’argomento: «si dice che l’industria della moda sia il virus dell’anoressia. Non è così. Non esiste un virus dell’anoressia. Non lo si può identificare né nella madre, né nella moda, né nelle condizioni di stress in cui tutti viviamo. L’anoressia racchiude una delle crisi per intendere la condizione umana che risuona nei Vangeli: non di solo pane vive l’uomo. Perché la vita biologica si umanizzi, sono necessari il segno d’amore, la parola, la presenza della parola dell’altro. [...] L’anoressia è una malattia dell’amore». Presentando l’anoressia come una malattia - anzi, un’epidemia - “ipermoderna”, che colpisce in grande maggioranza i giovani, legata al rifiuto (pur non esaurendovisi) della montagna di oggetti che si riversano su di noi senza colmare il nostro vuoto di senso e di affettività.
Problemi dei nostri giovani; dunque anche nostri. Dei modelli che proponiamo, dell’esempio che offriamo. Di quando diciamo che “il futuro è dei giovani” per affermare, nei fatti, che il presente gli è precluso; o quando, peggio ancora, diciamo ai giovani che per essi non v’è futuro, lasciandoli preda dell’angoscia, impreparati alle sfide in arrivo. Quando, vecchi, ne avremo davvero bisogno, sarà forse troppo tardi.
(«Il Caffè», 16 marzo 2012)