La globalizzazione come dato di fatto: popoli, lingue, culture, abitudini, aspettative ed esigenze si trovano a contatto e l’altro non si trova più all’altro capo del mondo, ma sullo stesso pianerottolo, alla fermata dell’autobus, in fila allo sportello, alla scrivania accanto. La globalizzazione è un’opportunità (se pur nella versione “di necessità, virtù”): dal contatto può nascere un incontro dialogico fruttuoso e salutare per entrambi, un momento di novità, di crescita, di gioia. Ma il contatto può anche diventare frizione e trasformarsi in scontro ideologico: fino alla guerra di religione, all’esportazione armata della democrazia, all’imposizione di un pensiero e di un’economia unici.
La globalizzazione si presenta dunque come una lama a doppio taglio che nessuno può pensare di eludere né - al momento - di dominare. Ne parlano Michele Borrelli e Raoul Fornet-Betancourt nel volume da loro curato e recentemente edito da Pellegrini, dal titolo L’intercultura: filosofia e pedagogia. Nessuno oggi possiede le soluzioni ai problemi globali (lo dimostra tra l’altro il fatto che i problemi sono ancora tutti lì, a cominciare da quello climatico-ambientale); perciò l’intercultura non è più solo un metodo filosofico come un altro, ma un imperativo sempre più categorico (e urgente). Perché la soluzione dei problemi comuni richiede il contributo di tutti, a partire da quelli tradizionalmente esclusi, i “senza voce”, i cosiddetti “ultimi della terra” (la stragrande maggioranza degli uomini che vivono con meno di due dollari al giorno): «se parliamo di convivenza planetaria non ci sono i detentori della verità, da un lato, e gli esclusi al dialogo, dall’altro, ma siamo tutti chiamati a collaborare nell’interesse di tutti; tutti devono poter apportare il loro contributo, la loro visione del mondo, il senso che ognuno vorrebbe dare a se stesso e alla vita». Ciò implica la rinuncia alla pretesa di possedere la verità, vera sfida del nostro tempo.
D’altra parte, rimarca Betancourt nel suo saggio dal titolo “La trasformazione interculturale della filosofia”, l’intercultura resta comunque anche un metodo, da applicare in maniera rigorosa e consapevole, onde fuggire le tentazioni del multiculturalismo (collezionismo di “materiale esotico” da integrare più o meno forzatamente nella propria cultura) e del transculturalismo (la convizione che esistano fattori extraculturali di portata generale che è possibile applicare ad ogni cultura - ho ripreso le nozioni di Raimon Panikkar, filosofo catalano autore qui dell’intervista “La dialettica della ragione armata”, già pubblicato dallo stesso editore in un volume precedente).
Cè bisogno non solo di una filosofia adeguata, sottolinea Borrelli, autore del saggio “Pedagogia interculturale tra economia e politica”, ma preliminarmente di una pedagogia all’altezza della situazione. Concreta ed efficace: non fondata su presupposti teorici e astratti, ma sull’intreccio originario fra la politica e l’economia. Una pedagogia che nasce insieme a queste due discipline, perfettamente integrata nel contesto della vita sociale. E che non può più ritenersi legata a delle rigide dinamiche culturali preordinate, ma sa organizzarsi fluidamente in un ambito sempre più, appunto, globale. Rivolto agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado (e delle università). Con un corposo saggio di Karl-Otto Apel.
M. Borrelli e R. Fornet-Betancourt (a cura di), L’intercultura: filosofia e pedagogia, ed. Pellegrini, 2011, pp. 130, euro 15.
(«Pagina3», 19 gennaio 2011)
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