martedì 17 gennaio 2012

P. Calabrò, Le cose si toccano. Recensione di Maria Roberta Cappellini

Compatibilità o incompatibilità? La vexata quaestio è d’antica memoria: che rapporto può esistere tra scienza e filosofia (teologia) dopo la drastica separazione cartesiana?
Il libro di Calabrò affronta la problematica tenendo come riferimento da un lato la fisica contemporanea dall’altro la filosofia panikkariana , per valutare la possibilità di” una concordia discors”, l’accordo tra i saperi, sulla base di una comune sensibilità. Compito non facile se si considera la sfida cosmoteandrica di Panikkar e la sua rilettura critica del mondo moderno, della scienza e teologia contemporanee, ossia di quella “monocultura occidentale totale ed onnicomprensiva”. Sfatando pregiudizi ed ideologie, la lucida analisi di Calabrò si prefigge di mostrare e non di “dimostrare”, ponendosi quindi su un piano dialogale e non dialettico, ad aprire un campo d’indagine da questo punto di vista ancora insondato, non esistendo grande letteratura a riguardo. In particolare uno dei meriti indiscutibili del testo
è l’esser riuscito a valorizzare la posizione moderata e bilanciata di Panikkar, in un mondo connotato da mode esotiche e derive new age, rilevando la figura carismatica di questo filosofo vissuto armoniosamente tra Orienti ed Occidenti.
Un testo giocato sul filo discorsivo che si avvale del logos non per dimostrare ma per accennare e mostrare la relazione fondamentale di tutti gli enti esistenti, nella loro triplice dimensione di materia, pensiero e libertà. Una riflessione che si caratterizza per alcuni fondamentali distinguo sia della filosofia che del pensiero scientifico attuale, atti a comprendere non solo le sottigliezze del pensiero panikkariano, ma anche il rapporto tra questo e il pensiero scientifico. La prima, quella più evidente, è quella che riguarda la visione dell’uomo comune che vive immerso nel mito della scienza infallibile e predittiva, rispetto a quella del vero uomo di scienza, consapevole, nutrito dal dubbio e caratterizzato dall’incedere incerto tra teorie, esperimenti e verifiche, nella consapevolezza di fondo dell’incommensurabilità del suo stesso campo d’indagine. Basti in tal caso citare Meyerson o Popper e la teoria dell’ irriducibilità del reale al principio di identità, in virtù di “un resto” che segna il limite di ogni traguardo scientifico, pertanto definibile solo contestualmente, per riallacciarsi alla “relatività radicale” di Panikkar, all’irriducibilità ma al contempo inscindibilità tra Essere e Pensare.
Tutto si tiene, tutto è in relazione con tutto, “tutto epifanicamente co-è nella relazione costitutiva”, nulla è sussistente “per sé”., come evidenzia Calabrò. L’oggettività esiste solo all’interno di tale relazione e in quanto tale è relativa. La realtà è cosmo teandrica, in costante movimento pericoretico, secondo il quale ogni cosa “occupa “ il posto che deve occupare in senso dinamico e relazionale, avendo la possibilità di venire ad essere, di divenire ciò che essenzialmente è. In tal senso “Tutte le cose si toccano”.. , come suggestivamente espresso nel titolo, poiché vi è interpenetrazione, e co-appartenenza tra tutti gli enti esistenti e stati dell’Essere.
Partendo da tale intuizione panikkariana primaria, Calabrò riflette sull’enorme portata e ricaduta di tale pensiero sul versante della scienza ed in particolare della fisica, soffermandosi su alcuni binomi di fondo e sui rispettivi distinguo apportati da Panikkar, quali relatività/relativismo, “ cosa in sé”/evento, oggettività/soggettività, termine/parola, concetto/intuizione, universalità/equivalenza omeomorfica, astrattezza/concretezza, esperimento/esperienza, mito/ideologia, fede/conoscenza, ontonomia/epistemologia, fisica/metafisica, materia/libertà . L’invito è quello ad uscire dagli abituali recinti concettuali , proponendo alla riflessione la visione a-duale/ternaria, secondo la quale i fattori dell’esperienza personale e gli influssi ambientali sono inseparabili dalla visione scientifica. “La cosa” non è quindi in sé, ma in relazione al tutto.
Qualcuno ha saggiamente asserito che tutta la filosofia, intesa come edificazione di un sistema secondo una tecnica di esposizione astratta, sarebbe da riscrivere secondo” una mancanza” che la abita e secondo il tentativo costante di coglierne l’intuizione germinale (Valensi). Ossia secondo un’ammissione di umiltà da parte dell’uomo, vale a dire di riconoscimento dell’ incommensurabilità dell’Universo. Atteggiamento proprio degli antichi “philosophoi”, piuttosto che di alcuni moderni filosofi e scienziati sospinti più che dal pathos di ricerca, dal proprio integralismo scientifico, ossia da quel tipo di approccio che si erge a detentore di verità (visione che Calabrò ricorda essere sovrapponibile alla “sovrannaturalità messianica”. In tal caso l’eschaton riguarderebbe tanto la teologia che la scienza moderne). Perché? La ragione è semplice: non può darsi un “sistema” in quanto l’essere è in continuo divenire.
Pensiamo allora all’antica intuizione del “génesis éis ousìan” del Filebo platonico, analogamente al ”panta rei” eracliteo: ossia al divenire dell’essere alla radice od origine di tutte le cose. Tale riferimento sembra più che mai pertinente a proposito della riflessione di questo testo, imperniata sulla non facile distinzione tra ontologia ( la sussistenza dell’Essere) ed ontonomìa (la relazionalità dell’Essere) e più specificatamente sulla perichoresis cosmoteandrica, ossia sullo stato di “relatività radicale” o “interdipendenza relazionale” dell’universo, in cui ogni cosa si muove (e quindi viene ad essere) in rapporto alle altre, secondo imprevedibili rapporti di complessità. In termini di attualità scientifica potremmo a tal proposito ricordare “il principio di Carnot” ed il suo focus sull’ elemento d’indefinibilità ed imprevedibilità della Realtà, portatore di nuove prospettive. Oppure indicare l’odierna riscoperta da parte della fisica della non onnipotenza della ragione, la cui validità non è assoluta, bensì “relativa”e contestuale, e perciò della sua apertura all’infinito,e quindi della sua libertà.
Fondamentalmente ciò che permette tale visione è la struttura a-duale della realtà, né monistica, né dualistica, in quanto simbolica e pluralistica: una realtà cioè né soggettiva né oggettiva in quanto relazionale. E in tal senso pluralistica, riferibile cioè alle tante visioni quanti sono i miti dell’umanità , ossia gli orizzonti di intelligibilità di cui l’uomo necessita per vivere in modo organizzato e per pensare. Non ci sono concetti diversi, non un’unica realtà interpretabile sotto diverse forme, ma una vera e propria pluralità di mondi diversi. Il pluralismo corrisponde infatti alle esperienze dell’uomo secondo i differentii orizzonti intelligibili e i propri miti, tutti di pari dignità e valore : una realtà molteplice ma non riducibile a parametri quantitativi, in quanto maggiore della somma delle sue parti e dunque qualitativamente indefinibile. L’unica “verità” razionalmente possibile per l’uomo è dunque quella che permette la relazione di tutte le cose.
Meccanica quantistica, teorie della complessità, teoria del caos, secondo un crescendo di riferimenti e di illustri nomi rappresentativi del mondo della scienza, sono indicati da Calabrò a sostegno della tesi dell’”accordo dei saperi” che si conclude con la proposta teofisica di Panikkar, conseguenza diretta dell’intuizione ternaria in cui fisica e metafisica, scienza e tradizione, immanenza e trascendenza non vanno separate né sottoposte ma correlate nel senso della complementarietà, secondo la quale solamente può darsi la possibilità di una pacifica armonia , quella interrelazione implicante la mutua fecondazione delle parti e dunque la trasformazione (ontonomia) dell’Intero.
Al termine di tali considerazioni ci sia concesso un ultimo riferimento a proposito di antiche e nuove intuizioni, al Maestro Pitagora, il sophòs che coniò i termini philosophia e Kosmos. Figura emblematica in un’epoca di transizione alla stregua di Panikkar, Pitagora , anch’egli in parte debitore all’Oriente, fu esempio non solo di studioso delle opposte polarità della vita (archai),dell’Anima Mundi e del Kosmòs vivente, ma anche propenso alla conciliazione tra “scienza e filosofia” attraverso le figure geometriche e i numeri simbolici (arithmoi) unificanti l’aspetto quantitativo e qualitativo degli elementi costitutivi e degli Enti del Kosmos in quella divina Armonia (delle sfere celesti) definita secondo il pitagorico Filolao: “unità del molteplice e concordia del discordante”, ovvero per dirla in altro modo ancora una volta con Panikkar, del vero “Ritmo dell’Essere”.
M.Roberta Cappellini

(«Atrium», anno XIII, n° 4»)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano