mercoledì 9 novembre 2011
N. Vassallo, Per sentito dire, ed. Feltrinelli, 2011
Cartesio si sbagliava. Si potrebbe riassumere così, in estrema sintesi, il pensiero posto all’inizio e alla fine dell’ultimo libro di Nicla Vassallo, Per sentito dire (ed. Feltrinelli, 2011), in un circolo virtuoso che si dipana fra aneddoti, riflessioni sull’attualità e analisi dei classici della filosofia antica e moderna.
Con una trattazione puntuale ma vivace l’autrice spiega che Cartesio si sbagliava perché il suo tentativo di far tabula rasa di ogni falsa conoscenza era votato al fallimento fin dall’inizio: non si può essere mai abbastanza radicali in quest’intento perché è impossibile sbarazzarsi delle proprie condizioni di partenza, ad esempio è impensabile poter fare a meno del linguaggio appreso fin dalla nascita.
Questa situazione di fatto non è un’attenuante, ma al contrario un’aggravante: l’impossibilità di rendere la tabula davvero del tutto rasa avrebbe dovuto mettere in guardia il filosofo circa la reale fondatezza di un’impresa tanto ambiziosa. Ma Vassallo non fa un processo al padre della filosofia moderna, bensì trae spunto da queste considerazioni per ricordare che il fondamento della conoscenza non è la certezza, ma la fiducia. Il dubbio è sempre secondo alla fiducia: può dubitare e portare avanti il proprio scetticismo filosofico soltanto chi, nel fondo, si fida (per questo il critico più spietato dello scettico non è il dogmatico, ma l’ansioso: egli mostra cosa accadrebbe se i timori intellettuali dello scettico prendessero corpo).
L’autrice mostra con vari esempi quante e quali conoscenze acquisiamo ogni giorno - tramite i gesti più insignificanti, involontariamente e perfino inconsapevolmente - senza vagliarle criticamente e non di meno utilizzandole di continuo: ad esempio, ci laviamo i denti convinti che questo serva alla salute della nostra bocca, fidandoci dei medici che ce lo consigliano senza verificarne personalmente l’efficacia (che presupporrebbe una competenza tecnica che spesso non possediamo); similmente, ascoltiamo le notizie radiologiche del disastro nucleare di Fukushima, senza essere assaliti dal dubbio che sarebbe meglio andare sul posto a verificare le emissioni con un contatore Geiger (ma, ancora più a monte, ci fidiamo del contatore Geiger e del suo responso senza avere la minima idea di come funzioni).
Non è solo una questione tecnico-scientifica. Senza la testimonianza di coloro che sono giunti ad abitare questo mondo prima di noi, non conosceremmo neanche il nostro nome, forse non sapremmo neanche di essere uomini e probabilmente non esisterebbe nessuna forma di civiltà. La conoscenza “certa” è solo un caso particolarissimo nell’ambito della conoscenza umana. E il valore della testimonianza può essere riconosciuto adeguatamente solo in una cultura che riconosca la centralità e la primordialità della fiducia.
Discorso tanto più attuale quanto più ci troviamo ad agire nell’epoca dell’ossessione per la sicurezza, figlia dell’individualismo e del bisogno di certezza cartesiani. Che ci aiuta a far luce sull’eterno dilemma: “fidarsi o non fidarsi?”, che al tempo della globalizzazione, dell’immigrazione di massa e dello “scontro di civiltà” è diventato un tormentone da pagina di cronaca. La verità è che l’uomo non possiede alcuna chance di rinunciare alla fiducia: non solo è costretto a fidarsi (altrimenti non avrebbe di fatto nessuna possibilità di continuare a vivere nel mondo - non potrebbe neanche più lavarsi i denti), ma già da sempre si fida - dell’altro, di se stesso, della ragione chiara e distinta - anche quando non se ne rende conto. Non tutti i testimoni sono attendibili; ma non possiamo fare a meno della testimonianza in quanto tale. La filosofia deve tenerne conto. Nessun uomo è un’isola. Cartesio si sbagliava.
(«Fronesis», anno 7, numero 13, gennaio-giugno 2011)
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