
Anche se posta di rado, la domanda d’apertura è non solo centrale, ma necessaria. Se è vero che - come scrive Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (3,9) - “noi siamo i collaboratori di Dio”: il cristiano è cioè tenuto senza meno a fare in modo che le cose vadano “in terra come in cielo”. I cristiani sono insomma destinati a fare della propria personale vocazione di cristiani un compito politico (cioè comune e concreto). Al di là di ogni semplificazione individualistica o “elevazione spiritualistica”: il tempo del cristianesimo (cui Panikkar associa il termine cristianìa) è quello dell’amore del fratello, del prossimo che ha bisogno del mantello e non può aspettare domani. Il tempo del cristianesimo non è il futuro, ma il presente.

Perché tutto nella realtà è rapporto di forze (come ha scritto più volte il filosofo francese Maurice Bellet). D’altro canto, non si può fare affidamento sulla politica, smarrita nella propria collusione o inettitudine. Bisogna fare affidamento sulla propria capacità di comprendere e di organizzarsi di conseguenza contro il nemico comune: il capitalismo finanziario, che ruba ai poveri per dare ai ricchi, provoca le crisi economiche e alimentari e cerca di convincere il mondo che non vi sono alternative.
Mentre proprio sulle alternative concrete - che la George tratteggia - i cristiani possono trovare un’intesa anche con i cosiddetti “non credenti”. Probabilmente certe questioni di principio - come il preservativo, l’aborto, il divorzio - appartengono al secolo scorso: nel senso che su di esse, è ormai chiaro, è impossibile trovare un accordo, che va lasciato evidentemente alle coscienze, al buon senso, al rispetto delle opinioni minoritarie e alla tutela dei più deboli. Oggi i cristiani, ed evidentemente non solo loro, sono chiamati a impegnarsi su un terreno più arduo e urgente: quello della giustizia.
(«Pagina3», 9 novembre 2011)
