Ad agosto ho intervistato l’economista del «manifesto», Roberto Tesi (alias Galapagos) sulla manovra finanziaria («l’Altrapagina, settembre 2011). Tra le tante cose interessanti che sono venute fuori (l’idea di una tassa patrimoniale ben strutturata, la possibilità di un sistema fiscale conflittuale), abbiamo ripreso anche il vecchio caro discorso della connivenza tra coloro che non emettono lo scontrino e coloro che non lo pretendono. Non pretendere lo scontrino sarebbe colpevole quanto il non farlo: di fatto è un’azione che contribuisce al mancato pagamento delle tasse previste dalla legge.
Galapagos è dunque del parere che dovremmo pretendere lo scontrino, la ricevuta, la fattura sempre e comunque. Che dovremmo essere preparati al professionista che ci chiede una tariffa più alta a fronte di una ricevuta; che dovremmo evitare di avere a che fare con quegli artigiani restii alla fatturazione e via discorrendo. Ma le cose a mio avviso non sono così semplici. A parte il fatto che ho litigato e perso i contatti con più di un professionista che mi aveva apertamente spiegato di non voler emettere alcuna ricevuta, il punto fondamentale credo che sia un altro: chiedere lo scontrino a un commerciante potrebbe in teoria sembrare un’azione formale e neutrale, ma chiunque vi si sia cimentato sa bene che non è così. Non dico che sia giusto; ma in una società in cui nessuno emette lo scontrino, chiederlo al proprio commerciante sotto casa sembra quasi una scortesia; a volte sembra un’accusa di star rubando (cosa tutt’altro che lontana dal vero). Non è una bugia certo; ma il punto è che glielo si sta rinfacciando; lui è lì, fisicamente presente, si tratta pur sempre di una persona che frequentiamo quasi tutti i giorni, con la quale abbiamo in genere un buon rapporto, che dal suo punto di vista non interpreta la nostra richiesta come la intendiamo noi (nel migliore dei casi, ci prende per bacchettoni). Se volessimo davvero far intendere il nostro proposito, dovremmo quanto meno provare a spiegarglielo; e c’è da dubitare che l’altro avrebbe voglia di ascoltarlo. Ovvero, si dovrebbe stare lì con la risposta pronta ad ogni rintuzzata rituale: “ma perché, la devi scaricare la ricevuta?”; “ma perché, conviene essere onesti in un Paese dove tutti sono disonesti?”; “ma perché, le cose cambiano se faccio lo scontrino?”; “ma perché lo Stato a noi che ci dà?”. Ecco, il fatto è questo: per chiedere lo scontrino tutti i giorni e più volte al giorno c’è bisogno di un perenne atteggiamento da combattenti, non ci si può sedere al tavolo di un ristorante con spensieratezza, fidando sul fatto che le cose faranno il loro corso regolare; si deve stare già pronti al fatto che la ricevuta a fine pasto non arriverà. E non tutti hanno questo carattere; è molto difficile (non dico che sia giusto o che tale disposizione vada incentivata; ma nemmeno si può negare il fatto che sia così, né si può chiedere all’intera umanità di essere diversa da com’è). Penso ai piccoli centri di paese in cui si conoscono tutti da sempre, mezzi imparentati l’un l’altro come sono. Lì questa operazione rasenterebbe l’impossibile (è per questo ad esempio che le forze dell’ordine scelgono spesso i propri componenti al di fuori della cerchia locale). Per questo motivo, io credo che il compito di accertare l’infrazione e sanzionarla non debba essere addossato ai singoli cittadini. Io credo che non dovremmo essere noi a pretendere lo scontrino, e che il controllo vada pianificato in un altro modo. Un’idea ce l’avrei. Restate sintonizzati.
(«Il Caffè», 18 novembre 2011)
sabato 19 novembre 2011
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