
L’opera, che appare in un semplice formato tascabile, è divisa in due parti. La prima presenta l’intuizione panikkariana della interrelazione Dio-uomo-mondo, le nozioni di mito e simbolo, il significato del pluralismo e si chiude con un capitolo in cui l’autore mostra come Panikkar non condanni né rifiuti la scienza moderna, ma ne respinga l’assolutizzazione, e cerchi piuttosto di integrarla in una sintesi più ampia. Calabrò reinterpreta alcune espressioni panikkariane che potrebbero apparire scioccanti per la mentalità contemporanea, come gli epiteti di “perversa” e di “diabolica” affibbiati alla scienza moderna, e fa vedere che si riferiscono all’aspetto culturale della scienza, al suo influsso sul linguaggio, e non al suo metodo e al suo valore cognitivo.
La seconda parte del libro, più impegnativa, affronta l’universalità e l’oggettività della scienza, la libertà della vita e della materia, l’inesistenza della cosa in sé. Nella realtà tutto è connesso con tutto e «non è possibile recidere i legami di una cosa con il resto della realtà senza alterare sia la realtà che la cosa stessa». In questo senso le cose si toccano, sostiene Calabrò parafrasando Panikkar. Il libro, che mette a confronto la metafisica di Panikkar con il linguaggio e le teorie degli scienziati, specialmente i cultori di fisica, ha l’indubbio merito di introdurre il pensiero di Panikkar in un campo che il filosofo avrebbe senz’altro apprezzato, lui che stimava gli scienziati come “gli uomini più intelligenti e sensibili del nostro tempo”.
Si avverte che l’autore ha intrapreso un dialogo intenso e fecondo con la scienza contemporanea e questo è senz’altro un titolo di merito. Vorremmo augurargli di proseguirlo fino a superare la fase esplicativa e giungere alla conquista di una prospettiva ancora più personale sulla scienza e sulla prassi scientifica. Infatti l’autore, nonostante la giovane età dimostra di avere i numeri e le capacità per un lavoro di più ampio respiro. Prolungare Panikkar è l’impegno entusiasmante che gli amici che l’hanno conosciuto potrebbero, da soli o comunitariamente, coltivare.
(«l'Altrapagina», ottobre 2011)
