Ci sono certi libri che non vorresti leggere. Cioè: che vorresti non fossero proprio stati stampati (perché poi, una volta che ne sei venuto a conoscenza, non trovi pace fino a che non li hai tra le mani). Ci sono libri che avresti preferito non leggere, perché ancora ti ricordi del pugno nello stomaco che ti hanno assestato. Eppure non riuscivi a smettere di andare avanti.
Mi è successo con Il volo. Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos, di Horacio Verbitsky (ed. Fandango, 2008). In cui per la prima volta si sentono raccontare i terribili crimini della dittatura argentina non dalle vittime, ma da uno di quelli che li hanno commessi, in prima persona, con dovizia di particolari, retroscena, spiegazioni. Per la prima volta si sentono le storie di brutalità inenarrabili (verrebbe da dire “inverosimili” se non fosse tutto tragicamente vero; come un ufficiale che applica la corrente elettrica a un bimbo di venti giorni d’età, per costringere il padre a rivelare informazioni: vi sembra possibile? Eppure è così) compiute non da una banda locale di delinquenti, ma da un’intera Forza Armata legalmente organizzata.
Lo chiamavamo un volo. Era normale, anche se ora sembra qualcosa di aberrante.
H. Verbitsky, Il volo, ed. Fandango, 2011
Brutture che hanno ridotto lo stesso carnefice, Adolfo Scilingo, in condizioni tanto pietose che - quando incontra il giornalista per vuotare il sacco - questi lo prende per una delle vittime. Poi il momento della verità: in cui il militare racconta dell’indottrinamento, della fiducia cieca nei confronti dei superiori - anche di fronte all’evidenza dell’illegalità e dell’aberrazione - e, infine, del volo. Perché l’assassinio degli oppositori politici non veniva definito tale: si faceva un volo in aereo e, volando volando, si gettava in mare una quindicina di prigionieri, legati e narcotizzati, cui veniva negata perfino la possibilità di comprendere che stavano per morire. Se possibile, il tutto veniva peggiorato dal rifiuto delle autorità militari di ammetterlo: prima che questi fatti venissero accertati da tribunali argentini e internazionali, la verità ufficiale era che si trattava semplicemente di invenzioni della propaganda rivoluzionaria. Quegli individui non erano né vivi né morti: nulla più che scomparsi (“desaparecidos”).
Verbitsky, uno dei migliori giornalisti argentini, approfondisce con rigore e puntualità molte altre questioni: da quelle più aneddotiche (come la storia di un militare intento a uccidere un innocente “scomodo” nel corso di un’imboscata; ferito, verrà poi decorato come zoppo) all’inconcepibile coinvolgimento del clero argentino nelle vicende della guerra civile, al fianco dei militari (definendo il lancio in mare “una morte pietosa”, anzi “cristiana, perché non traumatica”; giustificando la tortura; negando di essere a conoscenza dei fatti e allo stesso momento mettendo in fuga “gli amici”; incitando a colpi di Bibbia all’eliminazione fisica dell’avversario, perché “la guerra è guerra”. L’argomento è stato successivamente approfondito dall’autore nel ponderoso Doppio gioco. L’Argentina militare e cattolica, ed. Fandango, 2011).
Il volo di Verbitsky è un piccolo capolavoro (e si creda che qui “piccolo” è dovuto unicamente alle ridotte dimensioni del volume). Un libro che ci ricorda, mentre ci disperiamo per l’aumento del prezzo della benzina, di cosa l’uomo è capace nei confronti dei suoi simili, in tutte le epoche, a tutte le latitudini. Forse è giunto il momento di aprire gli orecchi e di intendere bene.
(«Il Caffè», 20 gennaio 2012)