lunedì 12 settembre 2011
Parla come vesti
Murmaky, jaquard, tsumori chisato, glamping addicted, clutch. Di che sto parlando? Vi do un piccolo aiuto: pump, glitter, denim bleached stretch, bangles, skinny jeans, jumpsuit. Sì, certo, sto parlando di moda. Ma quanti di voi saprebbero spiegare esattamente il significato di termini come pizzo leavers, tuxedo, texture, suède, grisaglia, tapestry?
Quello della moda è un gergo tecnico sofisticato e
specializzato (il che gli dà in qualche modo un'aura di scientificità), interamente colonizzato dall'inglese (rainboots, bag, open-toe, top buyer) e dal francese (minaudière, ton sur ton, bouclè, plateau). Ma la moda nel mondo non l'ha sempre fatta l'Italia? mi domando immaginando una lingua da passerella tutta made in Italy, come per la musica (un po' per campanilismo, un po' per pigrizia mentale). Ma poi, continuando a immaginare, metto a fuoco un giornalista di mezza tacca di Detroit (il mio omologo oltreoceano) intento a lagnarsi dell'eccessiva internazionalità dell'italiano. Così lascio perdere. Devo concentrarmi sui suggerimenti: “la bocca grafica è out”; “mini effetto bolero, oppure maxi e avvolgenti come mantelle, it’s urban cool”; “pezzi chiave: un pull e una gonna, da mixare con un occhio rétro, per essere charmante come in un cult movie degli anni ‘40”; “un pezzo su cui investire? Un coat strutturato ma con un dettaglio fur”.
Sulla stessa rivista da cui ho citato il frasario precedente (e che promette in copertina “12 soluzioni geniali per gestirti i capelli al mare”; dice proprio così: “gestirti”) leggo un'intervista a Violante Placido, dalla quale mi aspetterei qualcosa di più che una stucchevole citazione dalla Carrà di "Tanti auguri" ("in amore non ci sono regole", così sentenzia l'attrice). A quel punto mi metto a sfogliare furiosamente, non riuscendo a rassegnarmi all'idea di avere tra le mani nient’altro che un catalogo d'abbigliamento acquistato in edicola. E che trovo? Delle scarpe bianche, in vendita all’abbordabilissima cifra di 139 euro, con tanto di pennarelli sulle quali è possibile scrivere per "personalizzarle". Non ci vedo più. Afferro la penna che è sul tavolo, in mezzo all'enigmistica, e scrivo d'impulso "stronzo chi legge". Scurrile, è vero, non dico di no. Ma almeno è qualcosa che non passa mai di moda.
(«Il Caffè», 9 settembre 2011)
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