di Gloria Germani
Paolo Calabrò, già redattore del Centro Interculturale Raimon Panikkar, ci ha regalato un saggio molto importante, anzi necessario, su uno dei nodi centrali del nostro presente: la scienza (Paolo Calabrò, Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne, Diabasis, 2011). Fine conoscitore della sterminata opera di Panikkar, Calabrò spazia tra gli articoli, i saggi, i libri del filosofo indo-catalano che ha dedicato la sua vita all’incontro tra saperi e culture diverse, e riesce a darci un quadro molto esauriente della filosofia di Panikkar e del suo centrale rapporto con la scienza. L’immagine del mondo che esce dalla filosofia di Panikkar – ben lungi dall’assomigliare ad un vago eclettismo tra pensiero orientale e teologia cristiana, di cui talvolta è stata tacciata - rivela le sue notevolissime convergenze con le scoperte della fisica post quantistica. Tale significativa confluenza è sottolineata attraverso citazioni puntuali di Panikkar da un lato e, dall’altro, di autori imprescindibili come Einstein, Bohr, Heisenberg, Planck, Mach. Il contributo fondamentale del saggio di Calabrò consiste nel dimostrare che la fede nella“ oggettività e l’universalità della scienza.... si radicano in una visione scientifica prequantistica che la fisica ha già da tempo superato, ma alla quale la percezione comune è rimasta ancorata”. Si tratta di un risultato fondamentale non solo a livello di culturale, ma anche per il nostro vivere quotidiano; infatti in esso sono contenute le premesse di quella rivoluzione culturale di cui – come ha sostenuto tra gli altri Fritjof Capra - oggi abbiamo disperatamente bisogno. Rivolgiamo a Paolo Calabrò alcune domande per approfondire meglio il tema e le sue implicazioni.
Cosa significa l’esortazione di Panikkar che dobbiamo “emanciparci dalla scienza”( che dà anche il titolo ad un suo saggio)?
Innanzitutto grazie per questa intervista. “Emanciparsi dalla scienza” significa essenzialmente liberarsi dall’idea (falsa) che la scienza sia qualcosa senza cui non possiamo vivere. Vuol dire anche liberarsi dal dominio della “macchina di secondo grado” (quella industriale), che impone all’uomo il suo ritmo accelerato e le sue esigenze, soffocandone la libertà (non si può smettere di fare manutenzione a un impianto nucleare, Fukushima insegna). Emanciparsi dalla tecnologia si può. E, secondo Panikkar, si dovrebbe.
Come ha spiegato Panikkar, noi viviamo nel Mito della Scienza. Come ripetono tutti i grandi fisici postquantistici, “è la teoria che decide cosa dobbiamo osservare”. Cosa significa questo a livello della nostra quotidianità?
Il mito della scienza è il mito del nostro tempo. Ogni epoca ha il suo: quell’orizzonte in base al quale è possibile orientare il senso della realtà e della vita. Non dovremmo rifiutarlo tout court (vivere al di fuori del mito è impossibile); d’altro canto, non dovremmo assolutizzarlo, immaginandolo come una specie di punto d’arrivo della specie umana o di non plus ultra. Non bisogna divinizzare la scienza, bensì relativizzarla; la nostra vita quotidiana contiene e può trovare altri elementi di senso oltre le “spiegazioni degli esperti”.Ci puoi spiegare meglio quella che Panikkar stesso definisce la sua tesi principale – “ la scienza moderna è perversa e che la tecnologia è il cavallo di Troia per l’occidentalizzazione del mondo”? Panikkar altrove ribadisce infatti che la scienza “è stata estrapolata dal campo scientifico e si è diffusa come un cancro nella mentalità dell’uomo moderno sia orientale che occidentale”.
L’esempio del cancro è molto calzante, Panikkar non è l’unico ad averlo sfruttato (se ne è servito, ad esempio, il filosofo francese Maurice Bellet): il cancro viene dall’interno ed è una patologia il cui funzionamento è affatto omogeneo alla fisiologia - si tratta di una proliferazione di cellule (cosa del tutto normale), ma eccessiva e fuori luogo. Ogni cosa è valida (e sana) all’interno del suo ambito di validità, ma diventa fuorviante e pericolosa quando la si estrapola in maniera indebita. Questo vale per l’Occidente, in cui scienza e tecnologia sono nati; ma tanto più per le altre culture, che si trovano a subire (inconsapevolmente, da cui l’immagine del cavalo di Troia) l’influsso di una prassi e di una mentalità estranee a quelle tradizionali, che rischiano di venirne schiacciate.Come sai, io ho studiato a lungo e scritto su Tiziano Terzani (1938-2004). Non mi risulta che conoscesse Panikkar, ma le loro conclusioni di uomini che hanno vissuto profondamente tanto l’Europa che l’Asia, sono sorprendentemente le stesse. Tutti e due sono usciti dal mito della scienza, dall’impensato. Terzani per esempio scrive: «Guardare la realtà solo attraverso la lente della scienza è fare come fa l’ubriaco di Mullah Nasruddin. Un uomo dopo aver passato una serata a bere con gli amici, si accorge di aver perso la chiave di casa e si mette a cercarla nel fascio di luce dell’unico lampione lungo la strada. ‘Perché proprio lì?’ gli domanda un passante. ‘Perché è l’unico posto in cui riesco a vedere qualcosa’, risponde l’ubriaco. Gli scienziati si comportano allo stesso modo. Il mondo che con i loro strumenti ci descrivono non è il mondo, ma una sua parzialissima rappresentazione, un’astrazione che in verità non esiste». Sempre Terzani afferma: «L’aver messo la Scienza su di un piedistallo ha fatto sì che tutto quello che non è scientifico ci appaia ridicolo e spregevole». Oppure: «La scienza in Occidente è stata asservita ai grandi interessi economici e messa sull’altare al posto della religione. Così è lei stessa diventata ‘l’oppio dei popoli’ con quella sua falsa pretesa di saper prima o poi risolvere tutti i problemi». Cosa pensi di questa completa concordanza?
“Tutto quello che affonda converge”, ha ripetuto spesso Panikkar, e sia lui sia Terzani sono uomini che hanno vissuto con grande profondità i problemi del loro tempo. Panikkar ha ripetuto sovente lo stesso aneddoto dell’ubriaco sotto al lampione; così come non dovremmo fare della scienza un nuovo vitello d’oro, da mettere sul piedistallo. Non dovremmo tuttavia indulgere a nostra volta all’eccesso di criticare la scienza in tutto e per tutto. La lente della scienza è valida è utile; dovremmo solo riuscire a tenere bene a mente che non è l’unica.Panikkar giunge a delle considerazioni importantissime e del tutto fuori dal coro. Per esempio, come tu scrivi: “Introdurre in una cultura diversa da quella occidentale la scienza moderna, tramite la tecnologia, vuol dire ridurre lo spazio di quella cultura… La cultura occidentale non è universale perché è in contraddizione diretta con gli archetipi di altre tradizioni.” Oppure, come scrive Panikkar: “L’universalizzazione della tecnologia implica l’occidentalizzazione del mondo e la distruzione delle altre culture che si basano su visioni della realtà incompatibili... La tecnologia non è neutrale. Può germinare soltanto in un terreno moderno e può crescere solo in un clima occidentalizzato. Fino a che punto le altre culture possano sopravvivere, preservare la propria identità ed evitare la riduzione a folklore marginale resta un problema immenso.” Puoi commentare questi affermazioni così importanti su quello che Panikkar stesso definisce “un genocidio culturale?
Torna il problema del cavallo di Troia. È innegabile che la tecnologia - con il suo luccichio, le sue possibilità di controllo e di accelerazione - abbia un suo fascino. Ma purtroppo la tecnologia non è solo “le macchine”, bensì tutta la mentalità che la rende possibile: la concezione scientifica del mondo, la visione disincantata dell’universo come un luogo freddo, regolato da leggi meccaniche e popolato da corpi inanimati, ecc. La tecnologia ha bisogno di un mondo senza dèi, o nel quale gli dèi - come dice Panikkar - obbediscano al secondo principio della termodinamica. Qualsiasi cultura tradizionale risente di questo contraccolpo; fino a che punto ne venga alterata - o finanche distrutta - è impossibile dirlo a priori.Credi che ci sia relazione tra queste forti posizioni sul genocidio culturale e l’altra affermazione molto acuta di Panikkar: “La scienza si è presentata, anche per il fallimento di altri aspetti della vita umana – soprattutto della religione istituzionalizzata – come la via che ci porterà alla felicità, all’abbondanza, al progresso... Siccome noi non possiamo vivere senza cosmologia, abbiamo preso l’unica realtà che avevamo in mano, ossia tutta l’imponente costruzione scientifica e ne abbiamo fatto una visione totale e omnicomprensiva”?
In realtà la questione del genocidio culturale è più ampia del mero problema della tecnologia: abbiamo un genocidio culturale anche quando esportiamo la nostra democrazia, quando imponiamo la nostra economia, perfino quando pretendiamo di alfabetizzare le culture orali (che imparano l’alfabeto, sì, ma dimenticano tutto quello che sapevano prima). Il problema non è semplicemente il commercio di tecnologia, ma più in generale la tendenza dell’uomo occidentale a vedere se stesso come il punto più alto dell’evoluzione umana, giustificato e forse destinato alla “civilizzazione” degli altri. Così la globalizzazione diventa omologazione, e non resta che un unico valido modo di essere, di vivere di pensare: quello scientifico-tecnologico-occidentale.Il pensiero dominante in Occidente, la sua forma mentis, crede infatti che la scienza sia neutrale e universale. Perché è successo questo? Pietro Barcellona sottolinea nel suo ultimo libro un’altra affermazione di Panikkar: “Certamente il cristianesimo aveva disprezzato la ragione e aveva identificato la fede con una serie di credenze, più o meno superstiziose, aveva abusato del suo potere. Da qui il suo senso di colpa, più o meno cosciente, che poi cerca di redimere passando all’estremo opposto, inglobando acriticamente la cosmovisione scientifica”. Pensi che ci sia stata una responsabilità forte del cristianesimo nella creazione di questa forma mentis?
Barcellona dà un’ottima descrizione della questione, nel suo tipico linguaggio d’orientamento psicanalitico, che si aggiunge a quella di Panikkar, per la quale - nella disputa tra Galileo e Bellarmino - è Bellarmino ad avere ragione: e non perché Galileo abbia fatto male i calcoli, ma perché quando l’uomo inizia a concepire il mondo che ha davanti agli occhi come un meccanismo, non vi è più posto per il cielo della religione (che diventa così un “affare dell’anima”, un’astrazione dei teologi, slegata dalla vita concreta degli uomini). È evidente che, al di là di ogni critica al cristianesimo storico, la separazione tra scienza e religione oggi non è più sostenibile: una religione che pretende di fare a meno dei risultati della scienza (o addirittura di negarli) è cieca; similmente, una scienza che pretenda di ridurre la realtà a ciò che è scientificamente categorizzabile (secondo le esigenze della matematica, della misurazione, ecc.), è in pieno delirio di onnipotenza. La realtà eccede la ragione; ma non per questo c’è bisogno di negare la ragione, anzi, c’è bisogno di percorrere la via della ragione fino in fondo, così da toccarne il bordo.Giustamente Panikkar sottolinea che l’idea di oggettività è un retaggio della meccanica newtoniana e della filosofia kantiana. Oggi però è assodato che l’idea di oggettività quanto quella di materia oggettiva separata ed indipendente dall’osservatore ( che costituiscono la base stessa di tutte le varie scienze con cui interpretiamo la vita) sono state messe in crisi dalle scoperte della fisica quantistica. La conseguenza che ne deriva è che noi stiamo rischiando di distruggere l’ecosistema in base ad una visione del mondo scientifico-tecnologica che di fatto è una visione del mondo idealizzata, senz’altro parziale, e anche – in quanto è diventata visione totale e omnicomplessiva del mondo e della vita – erronea?
Stiamo distruggendo il mondo a causa dell’avidità, dell’ossessione per la sicurezza e il controllo totale e di una teoria economica che crede (ma non spiega come sia possibile) di poter portare avanti una crescita infinita a partire da un mondo finito (il nostro). La fisica non è una visione sbagliata del mondo, è solo una prospettiva parziale (come tutte le prospettive: l’idea di parzialità è intrinseca alla nozione di prospettiva). L’errore non è dunque la visione fisica del mondo, ma la tendenza occidentale a credere che sia l’unica valida. Non è del resto un errore da poco: la sua conseguenza è che in tal modo si estromette l’apporto di tutte le altre culture alla soluzione dei problemi del pianeta; ma, come sostiene Panikkar - e credo che abbia ragione - nessuna cultura può oggi dirsi autosufficiente e in grado di risolvere da sola i problemi globali. E dove non si riesce a immaginare niente di diverso, si persevera nel proprio solco, fino alle estreme conseguenze (e fino al delirio): ecco che, in seguito alla crisi economica, gli Stati vengono in aiuto delle banche; mentre in Somalia la gente muore di fame e in Etiopia per il morbillo.L’idea di una Anima Mundi – della completa interconnessione di tutti gli esseri sia animati che inanimati – era ancora viva nella visione del mondo platonica, in Plotino e ancora fino al Rinascimento. Giustamente nel libro, hai citato dei bellissimi brani di Marsilio Ficino che piacerebbero molto agli attuali esponenti dell’ecologia profonda”!!. Il punto nevralgico, come affermano vari premi Nobel come Laughlin e Prigogine, inizia con la visione cartesiana della realtà che oggi non è più sostenibile. Quali altre teorie condannano il metodo scientifico newtoniano-cartesiano?
La meccanica quantistica è la teoria fisica che più d’ogni altra esprime l’interconnessione fra tutte le cose e la difficoltà di concepire e conoscere la realtà tramite separazioni rigide e compartimenti stagni. La realtà non è più immaginabile come una grossa macchina della quale sia possibile smontare e riassemblare singoli pezzi senza alcun pregiudizio per l’insieme; ogni cosa è legata ad ogni altra, spiega a sua volta la moderna teoria del caos. Non si tratta, a ben vedere, di una novità, ma appunto di una riscoperta: è un’intuizione che parecchie tradizioni (compresa la millenaria filosofia occidentale, in cui si inserisce Ficino) conoscevano molto bene.Talune espessioni di Panikkar come “pluralismo” o “cosmoteandrismo” o “realtà simbolica” appartengono abbastanza al linguaggio teologico e non sono di facile comprensione per la grande massa. Credi che si potrebbero tradurre più semplicemente con l’impotenza da parte della lingua e del pensiero logico-discorsivo di afferrare la realtà ultima? Questa ammissione di impotenza, comporta infatti immediatamente l’apertura ad altre esperienze della realtà, tipiche di altre civiltà – penso soprattutto a quelle orientali che hanno fatto della pace interiore – e non della scienza – lo strumento principe per raggiungere la realtà.
Direi che c’è una fase apofatica riassumibile in questi termini (il pensiero non è in grado di cogliere la realtà per intero – precisando tuttavia che non si tratta per Panikkar di una debolezza della mente umana, quasi che una supermente à la Laplace possa invece accedervi, bensì di una caratteristica intrinseca alla realtà, che non si offre al pensiero in maniera trasparente). E c’è, d’altro canto, una fase affermativa, con una proposta metafisica precisa: il cosmoteandrismo. Ma mi spingerei a dire di più: la realtà non è qualcosa “da cogliere”, ma qualcosa cui partecipare. La comprensione è un momento importante, ma non è l’unico: c’è il momento della preparazione degli inviti, la scelta del vestito, il dono da offrire... ma poi c’è il banchetto. A volte rischiamo di dimenticare che la vita è gioia, ancor prima di qualunque senso, scopo, fine, imperativo, obiettivo si pensi di poterle o di doverle conferire.Concludo, ringraziandoti davvero per questo bellissimo saggio, con un’ultima domanda. Come dice Panikkar: “La cultura occidentale ... è in contraddizione diretta con gli archetipi di altre tradizioni”. Gandhi – che sempre di più è attuale - riteneva che la civiltà moderna con la sua” insensata adorazione per la materia, ha dato origine ad una mentalità che guarda al progresso materiale come alla meta ultima, ed ha perso la nozione dei veri fini del vivere».Agli occhi di Gandhi, la visione materialista moderna nasce, alla radice, da un atteggiamento di massima indulgenza verso se stessi. La sfrenatezza degli egoismi che è stata in tal modo sancita, si propaga a dismisura in un mondo dominato sistematicamente dalla violenza e dalle guerre. Credi che esista un nesso ben preciso tra la scienza newtoniano-cartesiana e la nostra ossessione ad avere piuttosto che ad essere?
La scienza è in primo luogo a mio avviso desiderio di sapere. E il desiderio di sapere è cosa buona: l’Ecclesiaste dice (cito a memoria): “ho speso la vita ad indagare la realtà. È questa un’occupazione penosa che Dio ha dato all’uomo perché in essa fatichi”. In questa prospettiva si tratta di un compito e di un destino; in ogni caso, di una cosa “buona”. Ma, come ricorda Bellet, la scienza è anche sempre desiderio di potere: si ricerca per poter liberarsi dalla necessità (tramite l’affermazione del dominio umano sulla natura). Questa tensione, questa doppia anima eternamente presente nella scienza la rende quel che è oggi: una scienza spesso insensibile alla dimensione globale delle cose (non ci si fa scrupoli nel cucire a filo gli occhi di un cucciolo, se si spera di ricavarne informazioni interessanti sullo sviluppo della sua rete neurale). Il desiderio di potere rende impossibile abbracciare lo spirito di Periandro di Corinto: “abbi cura del tutto”. Ma, d’altro canto, la scienza è oggi legata a doppio filo all’economia: divenuta ormai costosissima, è schiava dei finanziamenti, che non hanno a cuore la conoscenza ma il profitto. Si parla qui ovviamente della situazione generale, non di questo o quel ricercatore o dipartimento universitario. Ci sono tante brave persone che fanno scienza faticosamente ogni giorno (ne conosco più d’una); ma mi sembra innegabile che difficilmente si possa indagare liberamente intorno a una cosa che non promette alcun ritorno economico. La conseguenza è che oggi – in piena narrazione scientifica – siamo ossessionati dall’avere perché l’economia ce lo impone; la scienza ce lo propone; la tecnologia ce lo rende possibile... e noi non riusciamo a trovare niente di meglio nella vita. Anche perché la narrazione economico-tecno-scientifica ha offuscato o messo in ridicolo ogni sapere che non sia fondato sulla “pura ragione” (una volta di più, ho cercato di spiegare nel libro che la ragione scientifica non è affatto pura come si pretende); e a noi ormai sembra impossibile mangiare uno yogurt se non c’è almeno una decina di specialisti in camice bianco a raccomandarcelo. Dobbiamo tornare a una visione delle cose in cui la visione fisica del mondo sia una delle possibili e non più l’unica. Ma nessuno può farlo da solo, così come nessuno può imporre all’altro compiti e limiti. Abbiamo bisogno oggi più che mai – di fronte alle catastrofi climatiche, finanziarie, alimentari globali del nostro tempo – di recuperare un dialogo e un percorso comuni. Al tavolo ci saranno tutte le culture, le religioni, le scienze. Tutti parteciperano allo stesso titolo, senza gerarchie. E chi vorrà prendere la parola per primo, la userà per dire: “Benvenuti”.(«Associazione Ecofilosofica di Treviso», 20 settembre 2011)