domenica 31 luglio 2011

L'estetica del Pop

La Pop Art è popolare (concepita per un pubblico di massa). Effimera (soluzione a breve termine). Consumabile (che si dimentica facilmente). A basso costo. Prodotta in massa. Giovane (destinata ai giovani). Spiritosa. Sexy. Ingegnosa. Glamour. Così veniva caratterizzata la Pop Art nel 1957, a dieci anni di distanza dalla prima comparsa del termine “pop” su una tela del pittore scozzese di origini italiane Eduardo Paolozzi allora poco più che ventenne. Nessuno sa se si trattasse della voluta abbreviazione di “popular”, o di una semplice trovata onomatopeica (il rumore dello sparo prodotto dalla pistola rappresentata sulla stessa tela). Quello che sappiamo - al di là della diatriba sociologica, filosofica, morale che
ne seguì - è che da allora, nell’immaginario collettivo come nella letteratura specialistica, la parola “pop” è associata all’idea di “massa”.

«Una cultura di mezzo, la mediocrità culturale, letterale e metaforica, della società moderna».
A. Mecacci, L’estetica del Pop, ed. Donzelli, 2011

E massa, piaccia o meno, vuol dire degradazione, come spiega Andrea Mecacci, docente di Estetica presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze, nel suo recentissimo L’estetica del Pop (ed. Donzelli, 2011). La massa non fa pensare alla partecipazione attiva, ma al gregge. Non alla consapevolezza, ma al conformismo. Non è moralismo; è solo che, fatalmente, l’aumento della quantità porta sempre con sé la diminuzione della qualità. Perché il male - sia chiaro - non è che la massa possa finalmente avere accesso alla cultura (magari fosse possibile davvero), bensì il fatto che l’unica cultura che è possibile offrire alla massa è una cultura svilita, diluita, falsificata, la cosiddetta “midcult”, «una cultura di mezzo, la mediocrità culturale, letterale e metaforica, della società moderna», basata sulla finzione, sulla riproduzione, sull’illusione: ci si illude di star vivendo un’emozione, senza sapere che quell’emozione è prefabbricata, e per di più su larga scala (si pensi alle frasi di circostanza rintracciabili in internet). Ci si compiace della frase fatta, ci si immedesima nel tronista del giorno, ci si chiarisce - non attraverso Kant - ma a suon di citazioni di Alanis Morissette e Avril Lavigne.
Mecacci spiega che il fenomeno Pop non è solo il suo risvolto artistico, ma un modo di intendere la vita, la realtà e se stessi tipico di un mondo popolato più dalle macchine e dalle loro esigenze che dagli uomini (si può lasciar morire i poveri d’Africa, ma non si può smettere di sorvegliare un impianto industriale nel corso del suo funzionamento. Anche qui, non si tratta di moralismo, ma di osservazione lucida dello stato dei fatti).
L’autore dipana il suo discorso attraverso l’esame delle icone del Pop, da Warhol a Marilyn, dai Beatles a Elvis (con l’ausilio di un inserto fuori testo di 16 pagine a colori). E spiega che il Pop non è affatto qualcosa d’un’altr’epoca, ma l’essenza stessa della nostra: se è vero che Madonna - come Mecacci scrive alla fine del capitolo intitolato “Il Pop: un percorso filosofico” - è l’unica e incontestata erede di Andy Warhol, allora non possiamo ignorare le sue parole di qualche anno fa:
il Pop è il riflesso assoluto della società in cui viviamo.
Chissà se più una constatazione, o un monito.

(«Il Caffè», 15 luglio 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano