domenica 19 giugno 2011
Idiosincrasie
Quello che state leggendo è il numero 100 della rubrica “Considerazioni inattuali”. Ed è forse il momento per fare - non temete, no: non dei bilanci - ma dei ringraziamenti. In primo luogo al direttore responsabile - grazie al quale posso continuare a scrivere praticamente tutto quello che mi piace. E al direttore editoriale - che conobbi nella primavera del 2009, quando avevo in mente di scrivere un paio di recensioni di quando in quando e lui mi “controffrì” subito una rubrica fissa a sfondo politico/sociale. Poi a tutti i colleghi che grazie al loro lavoro encomiabile permettono l’uscita di quello che io chiamo sovente “il miglior giornale di Caserta”. E poi a tutti gli amici che mi stimolano di continuo con annotazioni, spunti, provocazioni, che li vedo all’altra estremità del corridoio e già capisco che hanno qualcosa da dirmi, poi si avvicinano e mi fanno: ho una riflessione inattuale per te. Ma soprattutto e ovviamente, ringrazio i lettori senza i quali - sembra banale o retorico, ma è così - nulla di tutto questo esisterebbe.
Come dicevo, dunque, ho passato più di due anni a scrivere di ciò che più mi piaceva. Per festeggiare, vorrei parlare oggi di ciò che non mi piace, o meglio: che detesto. Perché ci sono alcune cose che detesto. Non tutte, sia chiaro. Ma molte. Per esempio, detesto quelli che dicono “mi collabora”, “è proattivo”, “sto lavorando la pratica”, “sto processando dei dati” come se fosse gergo tecnico d’azienda e non semplicemente italiano sgrammaticato. Parimenti, detesto quelli che dicono “sclerare”, “flesciàre”, “flippare”. Quelli che dicono “la possibilità di poter fare”, senza accorgersi del pleonasmo. Così come quelli che dicono hàmburger, rùbrica, èdile, come hanno sentito alla televisione, mentre fino a un giorno prima dicevano hambùrger, rubrìca, edìle (com’è giusto). E ancora Bàssora (invece di Bassòra), Ànkara (invece di Ankàra), Fukùshima (e Hiròshima) invece di Fukushìma e Hiroshìma, come si è sempre detto, fin dai tempi della scuola (ma perché i nomi delle città - anzi gli accenti - cambiano da un giorno all’altro? Potrei alzarmi un mattino e scoprire all’improvviso di vivere a Càserta?).
Detesto quelli cui non piace leggere “un libro”, ma “un buon libro”, quelli che alla domanda “che musica ascolti?” rispondono “un po’ di tutto”. Quelli che appena cominciano la dieta non fanno altro che parlare di dieta. Quelli che parlano sempre di dieta anche se non la stanno facendo. Quelli che tu gli stai parlando di tutt’altro e loro ti dicono che non dovresti mangiare cioccolata perché fa male. Quelli che non hanno mai fatto una dieta perché sanno che basta mangiare di tutto, ma limitatamente. Quelli che hanno fatto una dieta miracolosa e senza sacrifici, la quale casualmente non prevedeva dolci, grassi, salumi formaggi e fritture. Quelli che stanno facendo una dieta da fame e ti sorridono con gli occhi scavati nel dirti che fra un paio di mesi passano al secondo “step”, quello con i legumi.
Detesto quelli che hanno sempre una terapia, un farmaco, un medico per ogni occasione. Quelli che hanno sempre il rimedio delle nonna. Quelli che non ti fanno la fattura, che quando gliela chiedi ti domandano se possono fartela “più piccola” e quando dici no si storcono: “ma perché, la devi scaricare?”.
E poi quelli che mentre stai parlando dicono “scusa se ti interrompo” e si mettono a dire cose di una inutilità disarmante. Quelli che saltano di palo in frasca. Quelli che parlano palleggiando due argomenti, lasciando a metà il secondo per riprendere il primo e avanti così, senza portarne a termine nessuno (e soprattutto, senza mai smettere di parlare). Quelli che ti fanno la domanda, ma poi non ascoltano la risposta. Quelli che tu stai parlando con loro al telefono e ti mettono in attesa a tempo indeterminato; poi ritornano: “scusa, avevo un’altra chiamata”, come se fosse una giustificazione.
Detesto detestare, e ancor più detesto quelli che detestano. Non finisce qui.
(«Il Caffè», 17 giugno 2011)
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