domenica 12 giugno 2011

H2Oro. Perché l’acqua deve restare pubblica

La legge Ronchi del 2009 obbliga tutti gli Enti locali alla privatizzazione del servizio idrico. Si dice che il privato sia più efficiente del pubblico (avete presente il privato? Quello che vi promette l’ADSL in 10 giorni e dopo un mese state ancora bestemmiando al telefono con il call-center? Quello che vi consegna a casa la pizza fredda e la birra calda? Insomma, il privato) e che l’acqua non faccia eccezione a questa regola.
Fosse vero, si potrebbe pure parlarne. Ma la verità è che «quasi vent’anni di privatizzazioni in Italia hanno comportato fenomeni costanti: aumento dei prezzi al consumo, declino degli investimenti, aumento del budget per la pubblicità, aumento degli stipendi dei manager, aumento delle spese per le consulenza, lottizzazione partitica
[...] In generale in Italia il pubblico, in termini di controllo dei prezzi e di ammontare degli investimenti, ha funzionato meglio del privato»: la citazione è tratta da H2Oro. Perché l’acqua deve restare pubblica, di Ercole Ongaro e Fabrizio De Giovanni (ed. EMI, 2011), contenente la sceneggiatura e il DVD dello spettacolo teatrale omonimo, replicato ad oggi oltre 300 volte in tutta la penisola.

Andiamo a votare per investimento. Votiamo oggi contro la privatizzazione dell’acqua per non andare domani a votare contro la privatizzazione dell’aria

In un certo senso è ovvio che le cose stiano così: di fronte a due gestioni (ad esempio, pubblica e privata) ugualmente efficienti, quella privata costa sempre di più, perché deve aggiungere ai costi il margine del proprio profitto (problema che il pubblico ovviamente non ha). Si ribatte che la competizione tra privati aumenta l’efficienza: ma se pur questo è vero - e noi avremmo tanti e tali casi di inefficienza privata da poterne legittimamente dubitare - il privato dilapida presto in pubblicità (a causa appunto della competizione, che si vince in genere più a suon di slogan che di vera efficienza) quel poco che è riuscito a risparmiare grazie all’efficienza.
Al referendum, domani e dopodomani, si vota anche per questo. Per ricordarci e per far capire a tutti che i beni primari (senz’acqua si muore) sono di proprietà di tutti e che dev’essere vietato senza mezzi termini, snella maniera più assoluta, specularci su economicamente. È una questione, sì, una volta tanto, anche di principio. Ma soprattutto, è una questione di civiltà. Non voglio che un giorno i ragazzi studino nelle scuole che quelli del 2011 erano così avidi e abietti che si vendevano perfino l’acqua da bere. È una cosa che mi fa ribrezzo.
Gli speculatori hanno a cuore la boutade (attribuita tra gli altri a D’Alema, ciò che si commenta da sé) per la quale “Dio ha creato l’acqua, ma si è dimenticato di fare i tubi”. È lo sfruttamento eretto a servizio sociale, il rovesciamento tipico di chi - mentre ti prende i soldi dalla tasca - dice che ti sta facendo un favore. A questo inganno mi piace contrapporre l’aneddoto raccontato da Dario Fo nella Prefazione al volume:
sulla Valtravaglia una doccia altissima d’acqua precipita da più di trecento metri a picco. Sotto, a poca distanza, c’è una chiesa romanica del 1000, si chiama Santa Maria dell’Acqua Chiara e sul transetto c’è scritto in un latino dialettale: “sacra è l’acqua di questa fonte. Rispettala, tienila da conto, offrila a chi ha sete e benedici pure i nemici tuoi ma non trarre mai vantaggio da essa: è sacrilegio, perché se ne trai profitto Dio si sente offeso”.
(«Il Caffè», 10 gigno 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano