domenica 12 giugno 2011
E. Mach, L'evoluzione della scienza, ed. Melquiades, 2010
Ernst Mach (1838-1916) è stato uno dei fisici più importanti della sua epoca e tra quelli che più hanno influenzato le epoche successive. Ma non è molto noto - soprattutto in Italia - tra i non addetti ai lavori: paradossale destino per uno dei più grandi divulgatori scientifici dell’Ottocento, famoso soprattutto per le sue “lezioni popolari” (corsi organizzati dall’Università di Vienna e rivolti alle classi lavoratrici - che in alcuni paesi della Bassa Austria si diffusero al punto di raggiungere la partecipazione dei due terzi della popolazione).
Massimo Debernardi - curatore del volume L’evoluzione della scienza. Nove “lezioni popolari” (ed. Melquiades, collana “Meccanismi”, 2010, pp. 271, con la Prefazione di Telmo Pievani) - spiega, con grande chiarezza e perizia, muovendosi a suo agio tra la bibliografia machiana ma anche nell’ambito del pensiero scientifico e filosofico dei due secoli scorsi, i motivi per cui Mach andrebbe oggi riscoperto. Nel suo saggio introduttivo dal titolo “Le ragioni di una rilettura di Ernst Mach”, il curatore enuclea i principi del pensiero machiano, li pone in relazione ai pensatori che maggiormente vi hanno interagito (talvolta fino allo scontro): tra di essi spiccano filosofi come Kant e Hume, scienziati come Planck ed Einstein, ma anche uno scrittore come Musil, che dedicò alla riflessione di Mach la sua tesi laurea e perfino un teorico del comunismo come Lenin. Ne affiora un ritratto di Mach scienziato, certo, ma non di meno didatta e divulgatore, animato da un precipuo intento filosofico: non quello di introdurre una propria filosofia della scienza, bensì quello di
far “piazza pulita” di una parte di quella esistente, da lui giudicata “vecchia e stantia”.
In primo luogo, il realismo rappresentativo o causale, di matrice galileiana, dominante nella scienza di ogni epoca. Per Mach, formatosi allo scetticismo humiano attraverso Kant, la relazione tra la causa e l’effetto è soltanto lo schema formale di cui ci si serve per “prendere nota” della regolarità dei fenomeni; in nessun caso questa conoscenza può venir riportata - tanto meno in maniera acritica e automatica - sul piano ontologico (dove non solo le cose potrebbero stare in tutt’altro modo; ma anche, di fronte a esperimenti diversi, potrebbero rendersi utili schemi affatto differenti, facenti riferimento a enti diversi e magari incompatibili, cosa oggi generalmente accettata e all’ordine del giorno in meccanica quantistica, a seguito dell’esperimento delle due fenditure).
Ma la necessità di liberarsi dal pregiudizio (tipica di Hume) viene radicalizzata da Mach al punto di sostenere che solo le nostre percezioni esistono (e le loro trasformazioni) e che ci si deve liberare completamente dell’idea di una realtà esterna indipendente dai fatti sensibili: secondo Mach, noi chiamiamo “realtà esterna” l’insieme delle proiezioni degli oggetti mentali di cui ci serviamo nel ragionamento per dar conto a noi stessi delle nostre percezioni. Tentativo che culmina nella risoluta negazione della “cosa in sé”, da lui definita “un’assurdità”, un “concetto inutile” (p. 43; critica che si muove sul piano filosofico dell’epistemologia, ma che procedere attraverso l’analisi del concetto di massa nella storia della scienza).
Ciò senza che Mach si illuda circa la possibilità di eliminare la metafisica dalla fisica: «neppure osservazione e teoria sono separabili in modo netto, perché quasi tutte le osservazioni sono già influenzate dalla teoria e, se hanno sufficiente importanza, influenzano a loro volta la teoria» (p. 51). Considerazioni che verranno espresse anni dopo, praticamente con le stesse parole, da fisici quantistici quali Einstein e Bell.
Ci si potrebbe intrattenere ancora sull’importanza della creatività nell’attività scientifica, o sull’idea che la scienza proceda non secondo uno sviluppo necessario o addirittura teleologico, bensì nell’alveo dello specifico contesto storico in cui la ricerca si attua, e spesso giunge a compimento con l’aiuto del caso. O ancora si potrebbe parlare dell’altrettanto celebre “principio di economicità”, per il quale lo scopo della scienza non è fornire una spiegazione della natura, bensì descrivere in maniera economica (cioè - in applicazione del rasoio di Occam - la più semplice possibile) le connessioni tra i fenomeni.
Questa, con un’adeguata dose di semplificazione, la riflessione filosofica di Mach, trattata nelle nove lezioni popolari tradotte da Debernardi in questo pregevole volume (stampato su carta raffinata e rilegato a filo). Scritta da un autore molto saggio, che conosceva di prima mano difficoltà e tentazioni del nobile mestiere dello scienziato, che non si faceva illusioni circa la possibilità di ottenere a buon mercato teorie “del tutto”, “del quasi tutto” (titoli di altrettanti bestseller contemporanei di divulgazione scientifica) e simili. Sapeva infatti bene che «è una caratteristica degli uomini e dei popoli giovani nel momento iniziale della loro ingenua e fiduciosa attività intellettuale, il ritenere alla prima apparenza di successo che tutti problemi si possano risolvere e comprendere nel loro intimo fondamento. Così il Savio di Mileto [Talete], osservando che l’umidità promuove la germinazione, crede di aver compreso tutta la natura» (p. 149). La scienza fisica, a 400 anni da Galileo, non è più giovane. E la riflessione di Mach è più attuale che mai.
E. Mach, L’evoluzione della scienza. Nove “lezioni popolari”, ed. Melquiades (collana “Meccanismi”), 2010, pp. 271, euro 20.
(«Pagina3», 12 giugno 2011)
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