giovedì 5 maggio 2011

M. Heidegger, La questione della cosa, ed. Mimesis, 2011

A 35 anni dalla sua scomparsa, Martin Heidegger è già, e da tempo, un classico del pensiero occidentale. Molte sue affermazioni sono divenute celebri al punto di essere ridotte a slogan ad uso e abuso di chiunque: a chi non è capitato di sentir dire - da una matricola universitaria o da un luminare - che ‘l’Essere si dà nascondendosi’? O anche di leggere in una rivista scientifica (ma anche in un giornalino d’ateneo) che ‘la scienza non pensa’?. Talvolta lo si cita, vi si allude, senza neanche sapere di star parlando del suo pensiero: così come capita per quei motivetti famosi che ci si ritrova a fischiettare senza avere idea di chi possa esserne l’autore. D’altro canto chi frequenta con piacevole abitudine le stanze della filosofia - avvertito dei rischi della banalizzazione, della stereotipizzazione, dell’irrigidimento dottrinale - sperimenta la difficoltà di parlare a un livello non eccessivamente specialistico di un autore che
ha scritto molto e sulla cui opera esiste una letteratura secondaria sterminata. Ogni accenno è un ripasso, ogni commento un’ovvietà, ogni asserto un già detto, sentito, saputo.
In questa situazione irrompe il piacere di parlare di un libro che - stampato per la prima volta in Italia nel 1989 - viene oggi ripresentato dall’editore Mimesis, a cura del prof. Vincenzo Vitiello dell’Università San Raffaele di Milano, in una nuova edizione completamente riveduta. La questione della cosa è il testo di un corso di lezioni tenuto da Heidegger nel semestre invernale 1935-36 all’Università di Friburgo (curato da Petra Jaeger per la Gesamtausgabe delle opere di Heidegger dell’editore tedesco Klostermann, la quale vi ha aggiunto 5 brevi appendici dello stesso Heidegger). E il piacere che, appunto, irrompe senza freno è quello di tornare alla gigantomachia perì tes ousias che il pensatore di Messkirch intrattiene qui con Immanuel Kant, sui temi della cosa in sé, dell’intersoggettività, dell’esperienza, della verità. Terreno sul quale, inevitabilmente, giunge a incontrare la scienza moderna, con le sue peculiari idee di razionalità e di conoscenza, le sue esigenze di matematizzazione della natura, le sue irrinunciabili categorie di spazio, tempo, oggettività. Per culminare nel punto in cui - con meccanismo tipicamente heideggeriano - la domanda sulla cosa rinvia al “cos’è” di colui che domanda, e la ricerca sulla realtà si intreccia - in una trama che conserva la distinzione, ma che non conosce separazione - alla ricerca sull’uomo. L’essenza della cosa non è indipendente dalla domanda che si pone sull’essenza e cioè anche da colui che la formula, in un certo modo, in un certo tempo, con una certa intenzione, secondo le sue possibilità. Una filosofia vicinissima, anzi prossima, a una certa sensibilità scientifica contemporanea (in particolare una certa filosofia della scienza incentrata sulle implicazioni metafisiche della meccanica quantistica).
Anzi, Heidegger è chiaro al riguardo: non v’è nessun disaccordo di principio fra la filosofia e la scienza; semplicemente va tenuto fermo che non sono la stessa cosa, che nessuna delle due dovrebbe tentare di ricomprendere l’altra, che nessuna di esse dovrebbe venir ridotta (o peggio ridursi) ad ancilla dell’altra e che nessuna delle due dovrebbe rivendicare di essere la ‘migliore’:
questa parola indica sempre una differenza di grado entro uno stesso ambito; col nostro interrogare ci poniamo invece fuori dall’ambito delle scienze, ed il sapere, cui, così interrogando, aspiriamo, non è migliore né peggiore, ma affatto diverso.
Quella di Heidegger, a stretto rigore, non è nemmeno (o non solo, e certo non in ultima istanza) una critica del sapere scientifico, bensì la fondazione di un sapere filosofico radicale che necessita (e non ‘desidera’) di prendere le distanze dalla scienza:
ponendo il nostro problema non vogliamo né sostituire né correggere le scienze. Vogliamo invece contribuire a preparare una decisione. La decisione di questo dilemma: è la scienza la misura del sapere o vi è invece un sapere che determina il fondamento e il limite della scienza e quindi della sua reale efficacia? Questo autentico sapere è per un popolo storico necessario, o se ne può fare a meno, sostituendolo con altro?
Ho aperto dicendo che Heidegger è un classico della filosofia occidentale. È vero. Ma questo comporta una conseguenza ben precisa: che con il suo pensiero bisogna farci i conti per forza. Perché molti sono i suoi epigoni, tanti i suoi critici, innumerevoli le sue influenze. Heidegger ha visto prima e più lontano di noi le sorti di un mondo popolato dai titani della tecnica che noi siamo, seppur inconsapevoli (quando non incoscienti). Per la chiarezza e la discorsività che lo stile della traduzione ha saputo mantenere, questo libro è raccomandato a chiunque voglia tentare oggi il suo primo approccio con il pensiero di Martin Heidegger. Con un Glossario finale ragionato dei termini tecnici più significativi.


Martin Heidegger, La questione della cosa. La dottrina kantiana dei principi trascendentali, a cura di Vincenzo Vitiello, ed. Mimesis, euro 18,00, pp. 215, ISBN 978-88-5750-265-6 [ed. orig.: Die Frage nach dem Ding. Zu Kant Lehre von dem transzendentalen Grundsätzen, Tübingen, 1962].

(«Filosofia.it», 5 maggio 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano