martedì 10 maggio 2011
Alla festa
Entro con mio figlio in una di quelle ludoteche in cui va di moda dare feste per i bambini. Infatti è alla festa di un amichetto che lo sto accompagnando, anche se è un po’ tardi. Cioè, la festa è quasi finita. Colpa mia, in verità; ma posso poi davvero dire “colpa”? Fra le tante cose da fare può capitare di far tardi a una festa. Ma non è questo, no: non sono un ritardatario cronico, uno di quelli che non sanno organizzarsi la vita. È proprio il contrario: se vuoi avere tutto sotto controllo, se vuoi che tutto vada esattamente come dici tu, allora... allora le cose da fare sono tante. Ecco tutto. Niente sensi di colpa. Entriamo.
Gigi si lancia subito nell’area giochi, dove sono i compagni. Gigi è mio figlio.
Faccio appena in tempo a riprenderlo: non si può entrare con le scarpe al piede, vanno tolte.
L’area è piuttosto grande, un rettangolo di venti metri per dieci, su più livelli, dove c’è tutto quello che può piacere a un bambino di quest’età (l’ho già detto che Gigi ha quattro anni?): la stanza dal pavimento coperto di palline morbide in cui tuffarsi, il labirinto con le pareti girevoli, le scale oblique e quelle verticali, il castello dai mattoni di spugna, le reti orizzontali da attraversare carponi, i tunnel in plastica a serpentone, gli scivoli gonfiabili. All’esterno della struttura, attaccato alla rete, un cartello che dichiara la conformità dei giochi alle norme vigenti. Si può stare tranquilli.
Anche se io non sono uno di quelli che lasciano il bambino alla festa e se lo vanno a prendere alla fine. Detesto il “baby-parking”; e detesto quelli che parcheggiano i bambini alle feste, a casa degli amici, in palestra, in piscina. A danza. A musica. Insomma: se sto con mio figlio ci rimango. E controllo che non si faccia male, che non prenda pericoli, che non litighi con nessuno. Controllo che tutto vada per il meglio. Lo guardo giocare nella play land (dopo un po’ ci fai l’abitudine a queste parole: play-land, ludoteca, baby-parking, kinderheim, party-planning), lo guardo correre insieme agli altri, ridere e sudare. Ogni tanto sparisce alla mia vista: poi riappare all’altro capo del tunnel, del percorso, del condotto, del corridoio. Poi riappare. Ora. È un po’ che non lo vedo. Che ore sono? È entrato in quel passaggio l’ultima volta. No lì; me lo ricordo. Adesso esce. Si muovono troppo velocemente ‘sti bambini, tutti vestiti uguale, piccoli come termiti agitate. Gigi? Guardo in ogni dove, gli occhi scattano affettando la stanza in strisce di attenzione. Quanto tempo è passato? Mi sto suggestionando. I bambini escono, c’è la torta. Ecco che escono tutti. Tutti. Gigi non lo vedo. (Non c’è). Scorretto; sono io a non vederlo (deve esserci). Ha solo quattro anni. Il tempo scorre, passa, vola. Vanno via: cappotti, scarpe, sciarpe, cappellini. Qualcuno del personale mi avvicina, mi fa: “chiudiamo”. Chissà che faccia ho fatto, ché mi dice: “qualcosa non va?”. Non c’è più mio figlio. Resto muto. Mi dà una pacca sulla spalla e se ne va. Stavo qui con mio figlio. Soltanto un’ora fa.
(«Flanerì», 10 maggio 2011)
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