sabato 26 marzo 2011

Grazie a Dio è venerdì

Grazie a Dio è venerdì
Una casa con dentro una famiglia, civili catturati e messi in una stanza dall’esercito, in zona di conflitto. Dopo qualche giorno, l’ordine di rilasciarli. Il comandante dice loro che possono andare; di fare attenzione, dice anche. E di andare a destra. Loro sono impauriti, spossati: sai com’è, sono giorni che non ti cambi, non ti lavi, mangi male e non sai cosa aspettarti per l’indomani. In più, capiscono malamente la lingua dell’ufficiale: abitano in quegli stessi territori, ma la lingua, la cultura sono diverse. Non si intendono. La famiglia - madre e due figli - va a sinistra. Sul tetto, il cecchino li vede avanzare nella zona proibita. Nessuno l’ha avvertito che i tre stanno per uscire. Lui si rende conto che è una famiglia. Ma perché avanzano tanto, perché nessuno gli dice di fermarsi? Perché
si muovono così sicuri, veloci, quasi spavaldi? L’ultima cosa che vorrebbe fare è sparare. Ma, Dio mio, gli ordini sono ordini. E se fossero delle bombe umane? (non sarebbero le prime). In un attimo la paura, il dovere, la frenesia prendono il sopravvento. Spara. Li ammazza. Non sa se si sente bene o male, adesso. Sa soltanto di aver fatto la cosa giusta.

Gerusalemme in questi anni ha rappresentato la geografia della paura. La soluzione pacifica passa attraverso una ridefinizione degli spazi politici e civili.
Franco La Torre, Grazie a Dio è venerdì, ed. Iacobelli

Accade così a Gerusalemme. Oggi. Accade forse un po’ in tutti i teatri di guerra, perché non a Gerusalemme? Perché non nella Striscia di Gaza, l’area più densamente popolata del mondo, quel fazzoletto di terra nel quale vivono 1 milione e mezzo di persone, di cui la maggior parte tira avanti nei campi profughi con meno di due dollari al giorno (nel 2006 era il 63%; nel 2008, l’85%).
Il ritratto di quella gente e di quei luoghi che Franco la Torre ci offre nel suo Grazie a Dio è venerdì (Iacobelli, 2011 - editore che si distingue per la cura riposta nei suoi libri a fronte di un prezzo contenuto) è asciutto e crudo, privo di retorica (anche se non di poesia). La Palestina è una zona in cui nessuno - da una parte come dall’altra - può sentirsi al sicuro. Mai. Come spiega all’autore il grande giornalista e pacifista israeliano David Grossman,
il 99% dei problemi fra noi e i palestinesi non è territoriale o politico, ma emotivo.
Fra aneddoti, ricostruzioni storiche, colloqui, sondaggi, estratti d’archivio, La Torre racconta la storia di due popoli che - come ex amanti - hanno il timore di avvicinarsi l’un l’altro per paura di soffrire di nuovo. Ma racconta anche di tanti giornalisti, artisti, scrittori, associazioni e del loro lavoro di tutti i giorni per riavvicinare uomini, lingue e culture ingiustamente distanti e resi diffidenti e impauriti dalle cicatrici dell’occupazione, del terrorismo, della rappresaglia.
Se oggi qualche motivo di speranza c’è, viene proprio da questa situazione disperata: da un lato i palestinesi sono logori di starsene internati, dall’altro gli israeliani sono stanchi di vivere assediati - più che una vera vita - una forma costosa e complicata di sopravvivenza. Ecco perché la pace può candidarsi come alternativa valida a questa miseria, pur tra difficoltà e opposizioni politiche e sociali, certo, e pur con qualche rinuncia anche importante. Ma nulla vale la pena più della normalità. Qualcuno comincia a capirlo. Presto (è la nostra speranza) saranno in tanti.

(«Il Caffè», 25 marzo 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano