sabato 27 novembre 2010

In difesa dei pigri

Ogni tanto capita di leggere un libro e di ritornare a porsi le grandi vecchie domande: qual è il senso della vita? Che cosa la rende degna di essere vissuta? Che cos’è che ci fa uomini? Mi è successo qualche settimana fa con il piccolo saggio “In difesa dei pigri” (compreso nell’antologia La filosofia dell’ombrello, recentemente pubblicato dall’editore PianoB) di Robert Louis Stevenson il quale - tra la stesura di classici come L’isola del tesoro e Il dr. Jekyll - amava abbandonarsi a speculazioni sul savoir vivre (tra cui quelle
sulla capacità di essere buoni conversatori, su vecchiaia e gioventù o su “come apprezzare i luoghi sgradevoli”, tutti contenuti in questa raccolta).
La nostra società sembra aver risposto alla domanda sul senso in maniera molto semplice: il senso della vita è fare. Qualcosa. Anche nella sua variante morale: il senso della vita è fare qualcosa di buono. O nella nuance gigantistica: nella vita bisogna fare qualcosa di grande. O ancora nella strana ma suggestiva variante al-di-là-della-morte: bisogna fare qualcosa di memorabile. Con il corollario politico: bisogna votare il governo del fare.
La nostra società, insomma, esalta l’attività e al contempo irride, svilisce, condanna la pigrizia (intesa nel senso deteriore di debosciatezza, e non nel senso di capacità di prendersi il proprio tempo): “la pigrizia è un vizio”; “la pigrizia è un difetto del carattere”; “la pigrizia è una malattia che impedisce di vivere una vita densa di significato”. Slogan inveterati che dimenticano che la vita - in specie quella umana - è ritmo, che alla veglia segue il sonno, che all’inspirazione si accompagna l’espirazione, che ogni fatica richiede il necessario riposo, e così via. Ma la nostra società concepisce l’uomo come una macchina per produrre azioni, idee, beni e servizi, e il tempo come qualcosa da sfruttare fino all’osso (per cui il riposo, lo svago, sono “perdite di tempo”e per cui anche la vacanza dev’essere impegnativa fino allo stremo - secondo il modello del villaggio-vacanze iperorganizzato).
Stevenson era sdegnato dalla gretta mentalità borghese dell’epoca (quella del 1876), già allora talmente presa dal fare da non aver tempo a sufficienza per pensare. In particolare, era nauseato (e noi con lui) da quella pletora di
morti viventi, gente mediocre che a malapena ha coscienza di esistere se non nell’esercizio di qualche occupazione convenzionale.
Gente che ha dimenticato il fondamentale Teorema della Vivibilità della Vita:
se una persona non riesce a essere felice se non rimanendo pigra, allora che resti pigra.
L’essenziale per l’uomo non è il lavoro (né il conseguente guadagno), ma la felicità. Possiamo criticare, limitare, interpretare questa affermazione; ma, se la neghiamo, costringeremo l’uomo ad essere un servo della produzione, ridurremo gli uomini a un unico tipo umano, e condanneremo l’umanità all’infelicità. Per evitare questa tentazione (ahimé anche troppo attuale), consiglio a tutti la lettura di questo saggio. A tutti quelli, ovviamente, che non siano troppo pigri per farlo.

(«Il Caffè», 26 novembre 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano