giovedì 28 ottobre 2010

Modernità e Shoà. Resistere al male secondo Janina e Zygmunt Bauman

Nel 2005 Janina Bauman scrive il volumetto Shoà per la collana “Parole delle fedi” dell’Editrice missionaria. L’autrice, ebrea polacca nata nel 1926 e sopravvissuta allo sterminio nazista, moglie del più celebre sociologo Zygmunt, aveva all’epoca pubblicato due libri di memorie concentrazionarie: Inverno nel mattino. Una ragazza nel ghetto di Varsavia (1994) e Un sogno di appartenenza. La mia vita nella Polonia del dopoguerra (1997). Questo breve saggio si presenta in discontinuità con i libri precedenti ma, in un certo senso, anche in continuità. In discontinuità perché
qui, per la prima volta, l’autrice sveste i panni della giovane ebrea per assumere quelli della studiosa, che affronta il problema della Shoà su di un piano scientifico, dalla pretesa d’imparzialità. Ma, si diceva, anche in continuità: perché quelli dell’esperienza concentrazionaria non sono panni che possano mai esser davvero tolti di dosso. Ecco dunque che il saggio si pone su di un piano metodologico rigoroso, quello dell’esame delle fonti e delle elaborazioni saggistiche, letterarie e cinematografiche, ma non può non fare i conti di continuo con la tragedia, la memoria, l’inspiegabilità, la speranza. Come nella conclusione, affermata senza dogmatismo ma con tutta l’appassionata forza della necessità:
i giovani delle future generazioni impareranno da quest’opera [“Il dottor Korczak”, film di Andrzej Waida] che all’epoca della Shoà non era inevitabile porre l’autoconservazione al di sopra dei valori morali e che non importa quante persone abbiano scelto di restare umane: quel che importa è che qualcuno l’abbia fatto. Impareranno che il male non era onnipotente: se anche non lo si poteva sconfiggere, almeno gli si poteva opporre resistenza.
Modernità e Olocausto (ed. il Mulino, 1992, recentemente apparso per lo stesso editore in una nuova edizione), di Zygmunt Bauman, si apre con queste parole:
dopo aver scritto la storia della propria esperienza nel ghetto e nella clandestinità, Janina ringraziò me, suo marito, per aver accettato la sua prolungata assenza nel corso dei due anni dedicati a quella scrittura, durante i quali ella abitò di nuovo nel mondo “che non era mio”.
Il sociologo comprese non solo che fino ad allora si era “accontentato” (come può farlo un intellettuale di questa levatura) delle conoscenze fin lì apprese sulla vicenda; comprese che nessuna spiegazione intellettuale, scientificamente imparziale, può colmare il vuoto di spiegazione di certi eventi:
da Janina ho imparato che la neutralità rispetto ai valori è, per quanto riguarda le scienze umane, non solo una vana speranza, ma anche un’illusione assolutamente inumana: che fare sociologia ha senso solo nella misura in cui aiuta l’umanità nel corso della vita.
Siamo di fronte al Bauman non accademico (e tanto detestato dall’accademia), al professore brillante cacciato dall’Università polacca per le sue posizioni “troppo democratiche”; allo studioso che ha il coraggio – eccezione nel suo canmpo – di affermare l’ovvietà che la sociologia dovrebbe avere come fine il bene dell’uomo, e non il semplice autoaccrescimento di se stessa.
Modernità e Olocausto fa piazza pulita di alcuni stereotipi affermati in letteratura (“l’Olocausto è stato un’interruzione del corso normale della storia”; “l’Olocausto è stato una sciagura ebraica e solo ebraica”; “le vittime ebree erano il bene assoluto, i carnefici nazisti il male assoluto”). Propone l’Olocausto come un fenomeno tipicamente moderno (i cui prodromi furono le tendenze culturali e le conquiste tecniche della modernità) e suggerisce che esso «sia stato l’esito di una combinazione unica di fattori di per sé assai ordinari e comuni».
Il libro si chiude con le parole familiari di Janina:
non è affatto scontato o inevitabile porre l’autoconservazione al di sopra del dovere morale. Si possono subire pressioni in questo senso, ma non si può essere costretti a farlo, e di conseguenza non si possono scaricare le proprie responsabilità su coloro che esercitano le pressioni. Non importa quante persone abbiano preferito il dovere morale alla razionalità dell’autoconservazione, ciò che importa è che qualcuno l’abbia fatto. Il male non è onnipotente. È possibile resistergli. La testimonianza di coloro che effettivamente gli hanno opposto resistenza intacca la validità della logica dell’autoconservazione. Mostra ciò che essa è, in ultima analisi: una scelta.
Ecco la lezione dei coniugi Bauman – separati, la scorsa estate, dalla morte di Janina: resistere è possibile: bisogna impararlo. Per poter sperare.

(«Pagina3», 28 ottobre 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano