giovedì 9 settembre 2010

Nucleare, ci vuole del coraggio. Intervista a Giuseppe Miserotti


Giuseppe Miserotti è Presidente dell’Ordine dei Medici di Piacenza e referente provinciale dell’ISDE-Italia (Associazione Internazionale Medici per l’Ambiente).

Esistono studi che mostrino la correlazione tra la vicinanza ad impianti nucleari e l’incidenza di tumori e leucemie?
Sì; ce ne sono diversi; uno dei più significativi per completezza di dati epidemiologici, per autorevolezza e terzietà in quanto promosso e finanziato dal Governo tedesco, è il KIKK study pubblicato nel 2008. In esso si evidenzia come, dalla valutazione fatta dal 1980 al 2003, intorno alle 15 centrali nucleari esistenti sul territorio tedesco, emerga un aumento delle leucemie nei bambini residenti fino a 5 km di distanza dalle centrali, del 220% rispetto alla popolazione normale, e un aumento del 160% dei tumori embriogenetici. Per quanto riguarda tali gravi patologie, il loro sviluppo in età così precoce, è da riferirsi alla irradiazione alle cosiddette “piccole dosi” cui inevitabilmente sono state sottoposte le madri in gravidanza. Anche negli USA il prof. Mangano e la collega Sherman avevano prodotto studi che evidenziavano come, nelle contee all’interno delle quali erano collocate le centrali nucleari, vi fosse un aumento dei tumori e delle leucemie che non trovava analoghi riscontri nelle popolazioni di controllo. I dati cui si riferirono i due autori statunitensi si riferiscono a dati facenti estratti da cosiddetti CDC (Center of Disease Control), istituti di rilevazione molto apprezzati negli USA e nel mondo scientifico in generale per la loro serietà.
A Sessa Aurunca, nella zona della ex centrale del Garigliano, si registra una incidenza di tumori e leucemia 6 volte superiore alla media italiana.
Anche questa rilevazione conferma come vi sia una diretta e causale connessione tra cosiddette “piccole dosi” di radionuclidi e aumento delle patologie tumorali. Il midollo osseo, poi, risulta essere particolarmente sensibile alle radiazioni. Il danno infatti si estrinseca sulle cellule staminali più che sulle cellule somatiche dell’individuo. Del resto questa è una delle ipotesi patogenetiche più accreditate anche nel KIKK study tedesco.
Da un punto di vista meramente economico: se anche il nucleare fosse più economico di altre forme di energia, il risparmio compenserebbe i maggiori costi legati all’aumento dei tumori?
Da medico che quotidianamente è a contatto con la sofferenza e con i drammi umani e famigliari che i tumori comportano, la risposta è d’obbligo: non può esistere valutazione economica che possa giustificare tanta sofferenza. Tuttavia non c’è dubbio che uno dei costi maggiori per il SSN sia proprio da riferirsi alle costosissime cure per le malattie tumorali.
Poiché «la radioattività di origine umana è il più sicuro dei cancerogeni» (secondo Paolo Scampa, presidente dell’AIPRI), non crede che dovrebbe essere l’industria nucleare a dimostrare l’innocuità della tecnologia, piuttosto che la medicina, magari con decenni di ritardo sui danni già procurati?
Dovrebbe essere così. In effetti i tentativi di rassicurazione da parte dei produttori di tali tecnologie non mancano. Peccato che ci si dimentichi che non possa esistere centrale nucleare che per definizione goda di una sorta di “compartimento stagno” dal quale nulla possa uscire. In realtà vi sono molti studi che dimostrano come i radionuclidi, in particolare Trizio e C14, correntemente escano dalle centrali sia per questioni legate al ciclo di raffreddamento dell’acqua che dai camini. Tutto questo come ovvio ha ricadute evidenti sul territorio e di conseguenza sulla catena alimentare. La metanalisi pubblicata nel settembre del 2009 nello studio di IAN FAIRLIE nel settembre del 2009 su Environmental Health, oltre allo studio KIKK, pubblica dati inequivocabili sulla presenza di radionuclidi all’esterno delle numerose centrali prese in considerazione.
Si può affermare che incidenti nucleari di tipo INES 0 e 1 non hanno “nessun significato sanitario”?
È un’affermazione molto coraggiosa per non dire scorretta. Infatti non esiste dose di radioattività per quanto piccola che per definizione possa essere ritenuta sicura. Già si discute di questo concetto quando si parla di radiazioni per motivi diagnostici, (radiografie, TAC etc.) che pure vengono assunte per una breve frazione di secondo dal corpo umano. Figuriamoci per assunzioni di dosi di radionuclidi che una volte assunte per via inalatoria o alimentare rimangono nel corpo umano praticamente per tempi lunghissimi (in alcuni organi verosimilmente per sempre) dove esercitano emissione di radioattività in modo continuativo secondo il carattere tipico di quel particolare radionuclide.
Il prof. Vincenzo Pepe, presidente di «FareAmbiente», sostiene che le vittime dell’incidente di Chernobyl siano state solo 65. Cosa ne pensa?
Probabilmente il professore si riferisce ai risultati del Chernobyl Forum pubblicati nel 2006. In esso si sostiene che per gli effetti diretti del disastro le vittime siano state solo 56 e 4000 i decessi stimati per le conseguenze. Ma questo rapporto secondo molti ricercatori sarebbe il risultato di tutta una serie di preoccupazioni politiche volte - come spesso accade in seguito a veri e propri disastri ambientali - a minimizzare danni ed effetti la cui portata appare non prevedibile. Il rapporto già in occasione della sua presentazione è stato aspramente criticato da alcuni importanti gruppi di ricercatori che sostengono come vi sia stata un’enorme sottovalutazione del numero di vittime sia reali che potenziali in conseguenza dell’incidente. Ci sarebbe molto da dire sul condizionamento che l’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) istituita per la promozione del nucleare civile, esercita sull’OMS. Tra molti altri il prof. NIKOLAJ OMELYANETES vice-capo della commissione per la radioprotezione ucraina, parla nei suoi studi di 35.000 decessi solo per quanti parteciparono alla ripulitura dei territori contaminati. La mortalità infantile è aumentata dal 20 al 30%. I dati di quegli studi, ripetutamente inviati all’OMS sono stati sempre ignorati. Il rapporto TORCH, pubblicato nel 2006 dagli scienziati inglesi IAN FAIRLIE e DAVID SUMNER , evidenzia gli effetti dell’esposizione a basse dosi di radiazioni o alle radiazioni “interne” che vengono assorbite per effetto della catena alimentare. Lo stesso documento parla di una sottostima del Chernobyl Forum di almeno il 30% della quantità di materiale radioattivo contaminante rilasciato dall’esplosione. L’Accademia delle Scienze russa stima che, ad oggi, ci siano stati 140.000 morti in Ucraina e Bielorussia e 60.000 in Russia. La commissione Nazionale Ucraina per le radiazioni pone questa cifra a 500.000.Tutto ciò mentre all’inizio del 2010 sia in Bielorussia che in Ucraina è stato rilevato un netto aumento dei casi di cancro e un ulteriore aumento della mortalità infantile.
Nell’ultimo rapporto di "Medici per l’Ambiente-ISDE Italia", si legge che «nel normale funzionamento di qualsiasi centrale nucleare (anche in assenza di incidenti o fughe radioattive) vengono inevitabilmente e obbligatoriamente prodotte e immesse nell’ambiente esterno una serie di sostanze radioattive, che entrano anche nella catena alimentare dell’uomo». Quali sono le implicazioni per l’uomo?
La contaminazione della catena alimentare molto ben studiata e riportata sempre nella metanalisi dello studio di FAIRLIE, rappresenta una delle conseguenze più gravi per l’insorgenza di tumori e leucemie oltre che di malformazioni nell’uomo. La presenza di radionuclidi con emissione continua di energia per tempi lunghissimi all’interno del corpo umano è causa di danni gravissimi. Oltretutto per ragioni di affinità strutturale fisica e biochimica rispetto ai tessuti biologici e a ripetuti stimoli e contaminazioni avviene all’interno del corpo umano un fenomeno di sommazione e concentrazione di queste sostanze con ulteriore aumento della loro patogenicità. Si ripete - insomma - anche per i radionuclidi ciò che è ampiamente riconosciuto e dimostrato per ogni altra sostanza assorbita a causa dell’inquinamento.
Giovanni Ghirga, della ISDE Lazio, sostiene che con la costruzione di nuove centrali nucleari si stia violando il cosiddetto “principio di precauzione”. Perché?
Gianni Ghirga ha perfettamente ragione; il principio di precauzione dovrebbe sempre essere applicato - come principio irrinunciabile così come previsto - ogni qualvolta esiste anche solo la “possibilità” (e non la certezza) che una sostanza o un prodotto possano influire negativamente sulla salute. È dunque un principio basato prima che su studi scientifici, sul buonsenso. Ma di questi tempi il buonsenso sembra essere merce sempre più rara sul mercato. O forse è meglio dire che le ragioni economiche di pochi hanno il sopravvento sulla salute dei cittadini.
Quali possono essere le conseguenze di una tale violazione?
Il principio di precauzione è previsto dal trattato di Maastricht del 1992, istitutivo della UE all’art. 174, comma 2 ed è contenuto anche nei principi della conferenza dell’ ONU su Ambiente e Sviluppo dello stesso anno. Non ho competenze giuridiche ma credo si possa pensare ad un ricorso alla Corte Europea in caso di mancata applicazione dello stesso.
Cosa dobbiamo attenderci, da un punto di vista sanitario, in seguito alla eventuale ripresa del nucleare in Italia?
Purtroppo dopo tutto quanto visto e detto credo ci potremo attendere solo un prevedibile aumento di tumori e leucemie con aumenti di mortalità infantile e di malformazioni.

(«AgoraVox», 8 settembre 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano