venerdì 2 luglio 2010

Dignità e competizione, la sfida di Pomigliano. Intervista a Pippo Civati

Intervista a Pippo CivatiPippo Civati è consigliere regionale PD della Regione Lombardia e rubricista de «l’Unità». Nel 2009 ha pubblicato Regione straniera. Viaggio nell’ordinario razzismo padano (ed. Melampo, con la prefazione di Nando Dalla Chiesa).

A Pomigliano d’Arco ha vinto il "sì". Un esito scontato?
Direi di sì, per come si erano messe le cose e per le proporzioni che alla fine avevano assunto, nonostante la significativa differenza fra impiegati e operai nell’espressione del voto referendario. Mi sembra in sé un fatto di grande rilevanza, un dato da indagare fino in fondo.
Come cambieranno da oggi le relazioni sindacali? Ci saranno ricadute sullo Statuto dei lavoratori?
Credo di no, a meno che non ci comportiamo tutti da irresponsabili: Pomigliano non è un modello, ma il risultato di una situazione contingente dove su determinati problemi si è tirata troppo la corda e troppo a lungo. Soprattutto, credo io, su delle questioni di carattere ideologico, che ben poco avevano a che fare con la produttività vera e propria. Il dibattito si è, per così dire, spostato troppo verso l’alto, collocandosi in una sfera di temi generali come la competitività e la globalizzazione che sarebbe stato meglio affrontare altrove, in sede politica. Si è forse perso un po’ di vista l’interesse concreto sia dei lavoratori sia dell’azienda. In ogni caso, proprio per questo, Pomigliano non è e non deve diventare un modello nazionale. Ha fatto molto male Sacconi a cavalcare l’onda dell’esito referendario nelle sue dichiarazioni del giorno dopo.
«L’Unità» ha parlato di "prova generale per l’eliminazione dl sindacato". Che ne pensa?
Che ci sia stato un tentativo, questo sì, è vero. Tuttavia il discorso è un po’ più ampio e riguarda l’intero modo di concepire le relazioni industriali fra l’azienda, il sindacato e i lavoratori. Il sindacato rappresenta ma non sostituisce i lavoratori: i lavoratori in carne ed ossa, ultimi destinatari di ogni decisione, e primi nel dar corso ad ogni azione produttiva, devono entrare (si tratta ovviamente di stabilirne i modi) nel rapporto di forze reale tra le parti. Bisogna d’altro canto trovare un modo per dar conto - all’interno della contrattazione - della situazione storica, particolare di ogni stabilimento; va da sé che dire - come ha fatto Marchionne - che gli operai si assentano dal lavoro per andare a vedere la partita, sminuisce un dibattito ben più complesso che andrebbe affrontato con la dovuta serietà. È pur vero che il tasso di assenteismo a Pomigliano lascia perplessi e necessita anch’esso di una riflessione attenta. Anche qui, il più possibile fuori da ogni ideologia e da ogni posizione di principio. Puntare i pedi a terra e chiudere gli occhi sulla realtà non giova a nessuno.
A proposito del referendum, si è parlato di ricatto e di scelta obbligata. È d’accordo?
Io sarei per lo smorzamento dei toni, a favore di un ragionamento più disteso e proficuo. Si possono utilizzare i termini che si vuole, anche "ricatto" (ove non sembri eccessivo), ma la riflessione non può prescindere dal dato di fatto della anomala produttività dello stabilimento di Pomigliano (anormalmente bassa). Il fatto che la pressione competitiva globale si faccia sentire non può essere negato o ignorato. Non parlerei però di "scelta obbligata", perché alla fine era necessario trovare un accordo e il referendum era probabilmente il modo migliore per riuscirci. Si potrebbe parlare a margine dei profili di incostituzionalità della proposta aziendale, ma questo è un piano diverso. Probabilmente nell’accordo di Pomigliano è mancato proprio lo spirito di ciò che si chiama "accordo", cioè una scelta davvero condivisa dalle parti nella sostanza.
Forse anche perché il dialogo tra azienda e lavoratore è sempre asimmetrico, a favore della prima, che è più forte.
Il punto è proprio questo. Non dimentichiamo che il diritto del lavoro nasce proprio per colmare questo grande divario. È evidente che i lavoratori siano svantaggiati in partenza: non è una questione ideologica o una pretesa da comunisti, si tratta di un’ovvietà, di buon senso. Questo accordo era molto impegnativo per entrambi, sia per i lavoratori (che si impegnavano a lavorare di più) sia per la FIAT (che aveva promesso cospicui investimenti). Non ha giovato all’accordo il clima di tensione creatosi tutt’attorno: e Tremonti, "casualmente" convenuto il giorno prima del referendum alla festa della CISL, ha ulteriormente peggiorato la situazione creando il panico da allarme "rivoluzione a Pomigliano".
Stefano Fassina, del PD, ha detto che la competitività delle aziende non può essere pagata al prezzo della dignità dei lavoratori.
Ma certo. Tuttavia, attenzione a non confondere le cose: lavorare secondo criteri di qualità, necessari alla competizione internazionale, non è di per sé qualcosa di indignitoso, anzi. Non dimentichiamo che l’espressione "qualità del lavoro" si riferisce sia alla dignità dei lavoratori sia al valore della produzione offerta. È evvidente che in certe situazioni-limite (come può essere quella di cui parliamo) una responsabilizzazione è necessaria: il punto è che non può essere imposta, ma va indotta in forme più condivise. Credo che al di fuori di questa dialettica della qualità intesa nei due sensi, il problema non sia che possa sparire il sindacato; bensì che possa sparire tutto. Senza questa dialettica, infatti, non c’è né impresa né lavoro. E, a dirla tutta, è mancata anche una presa di posizione netta da parte del PD. Senza entrare nei dettagli, abbiamo assistito alle affermazioni di qualcuno che "tifava" per Marchionne, qualcun altro allineato per principio alla FIOM e via discorrendo.
Parliamo del problema dell’identità del PD.
Non direi che sia un problema di identità, quanto - ancora una volta - di avere una propria posizione chiara basata basata sul ragionamento e sulle scelte offerte all’elettorato, piuttosto che sull’alleanza campanilistica o sul pregiudizio storico-ideologico. Il PD dovrebbe sedimentare una propria opinione su certe cose; grazie a quelle potrebbe talora trovarsi d’accordo con la FIOM, talaltra con la CISL, ecc. Non è un problema di identità, ma di responsabilità di un gruppo dirigente che, se vuole essere tale, deve saper prendere delle decisioni e portarle avanti. Tutto qui.
Tito Boeri ha scritto che la pressione competitiva dei Paesi Emergenti non implica un appiattimento verso il basso delle retribuzioni lavorative. A noi invece sembra di assistere proprio a un tale appiattimento.
Il rischio c’è, senza dubbio. Ma proprio per questo dovremmo infine deciderci ad assumerlo. Quello della competitività globale è un problema che ci trasciniamo da 20 anni. In questo senso, "innovazione" e "ricerca" devono cessare di essere slogan da convegno del PD e diventare un tema politico. Non mancano i settori produttivi in cui varrebbe la pena di fare investimenti strategici. Il nostro dibattito sull’argomento è antiquato. A cominciare dalla scuola: se continuiamo a inquadrare la scuola in una prospettiva di "nicchia sindacale" consegneremo il Paese alla stupidità: e da stupidi, domani, avremo più problemi che ora ad affrontare la competizione.
Qualcuno ha criticato la manovra finanziaria del governo in quanto limitata al rastrellamento di risorse, senza destinare nulla alla ripresa economica.
Ma questo governo non investe in nulla. A parte le dichiarazioni sulle "grandi opere" e qualche cantiere aperto tramite il giro di Bertolaso&C., di opere se ne vedono ben poche. Mi meraviglio che su questa immobilità non si pronuncino né la Lega né i finiani. Mi chiedo dove siano finiti.
Il 24 giugno 2010, all’indomani del voto in fabbrica, il ministro Sacconi ha detto che d’ora in poi i contratti nazionali di lavoro serviranno solo a garantire un livello “essenziale” di reddito. Ma il decentramento della contrattazione verso il territorio non indebolisce troppo i lavoratori? Quali sarebbero le conseguenze?
Il dibattito su questo tema è aperto e non esente da rischi, è ovvio. Ma io vorrei ritrovare un pensiero, per la politica italiana, un po’ più "alto". Perché ho realizzato una conclusione fondamentale: "Berlusconi è basso". E non in senso fisico. È basso dal punto di vista dell’approccio ai problemi; non fa altro che parlare di grandi riforme e non cambia mai niente. Vorrei che riuscissimo a venir fuori da tanti stereotipi concettuali e recuperare una politica più concreta, più lungimirante, dal respiro più ampio.
Eppure il voto sembra premiare spesso Berlusconi e i suoi alleati.
Certo. Perché propongono cose facili e immediate, ma piccole. Reggere qualche settimana, fra alti e bassi, è qualcosa che chiunque può fare; ciò che è complicato è mettere in piedi il Paese per i prossimi 10 o 20 anni.
Di fronte all’avanzata della globalizzazione i governi nazionali sembrano incapaci di legiferare in maniera autonoma. Cosa possiamo (ovvero dovremmo) aspettarci dalla nostra politica nazionale?
Intanto, la prima cosa da fare a mio avviso, è far entrare un po’ di dibattito europeo anche qui da noi (cosa al momento difficile perché abbiamo un governo manifestamente avverso all’Europa, la quale non manca di diffidarlo e sanzionarlo soprattutto sui diritti civili). Dovremmo riuscire ad alzare un po’ più lo sguardo, anche in vista di intese europee più ampie su questioni come la riforma del fisco (che a livello nazionale sono inadeguate). Non dimentichiamoci che abbiamo una moneta unica, e che il nostro destino è legato all’Europa.

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano