La tesi esposta da Noam Chomsky in questo agile ma pregnante volume, Il governo del futuro (ed. Marco Tropea, 2009), è dirompente: le idee del socialismo libertario (filone che abbraccia dalla sinistra marxista all’anarchia) sono l’unica e naturale propaggine, nella nostra società industriale, di quelle del liberalismo classico.
Il libro – basato sulla conferenza tenuta dall’autore al Poetry Centre di New York il 16 febbraio 1970, prende in esame quattro posizioni teoriche: il liberalismo classico (cioè quella dottrina sociale che si fonda essenzialmente sull’opposizione a tutte le forme di intervento statale nella vita collettiva e individuale, ad eccezione di quelle minime inevitabili); il socialismo libertario (cioè in buona sostanza l’anarchia, quella forma di governo immaginata da Marx ed Engels come ideale-limite cui tendere, in cui sparisce ogni mediazione e rappresentanza politica e ogni individuo o gruppo tutela direttamente da sé i propri interessi sul piano collettivo); il socialismo di stato (o bolscevismo); infine, il capitalismo di stato (del quale sono esempi eloquenti e attuali tanto il regime cinese quanto quello statunitense).
Il ragionamento del politologo americano parte dalla considerazione che il liberalismo classico è una teoria che affonda le radici nel romanticismo tedesco e pone al centro di tutto l’individuo, nella sua autonomia, nella sua iniziativa e nella sua facoltà di meritare il meglio tramite l’impiego della propria volontà. Il mito originario è quello del “self-made man”, dell’uomo che riesce a edificare se stesso in conformità alle proprie aspirazioni. Ebbene, l’odierno capitalismo industriale non è affatto l’erede legittimo di questa concezione, ma una sua radicale negazione: si pensi ad esempio alla grande instabilità che caratterizza quest’epoca, nella quale si assiste a licenziamenti di massa di persone volenterose e qualificate; nella quale l’iniziativa economica del singolo è esposta agli andamenti capricciosi dei mercati finanziari e le botteghe vengono schiacciate dalla concorrenza sleale (ancorché legale) dei supermercati; in cui gli stessi governi sono sottoposti di fatto all’influenza delle grandi corporation transazionali (che spesso sono dotate di bilanci superiori a quelli di interi stati nazionali).
Agli antipodi dunque del liberalismo classico, questa forma di economia-stato denominata capitalismo industriale ha in disprezzo l’individuo in quanto tale (ma non in quanto consumatore di massa) e non gli permette di avere il benché minimo controllo sulla propria vita: “potrò mantenere il posto di lavoro per i prossimi tre mesi?” o “potrò avere una casa e una famiglia?” sono domande che restano inevase (esse e solo esse, sì, a tempo indeterminato).
Dal canto suo il socialismo di stato, con la illibertà tipica del suo dichiarato autoritarismo, non è sensibile alle esigenze del singolo più di quanto lo sia il suo omologo capitalistico (nel quale – si potrebbe dire parafrasando Mark Twain – esistono tre cose indicibilmente preziose: la libertà di parola, la libertà di coscienza e l’accortezza di non praticarle mai). Solo l’anarchia può farsi carico del sogno liberal-libertario e tradurlo in realtà. Con grande slancio retorico Chomsky chiude il discorso con un invito che è anche una sfida:
oggi abbiamo a disposizione le risorse tecniche e concrete per soddisfare i bisogni materiali dell’uomo. Non abbiamo ancora perfezionato quelli morali e culturali, cioè le forme democratiche dell’organizzazione sociale, che ci permetterebbero di utilizzare in modo umano e razionale la nostra ricchezza e potenza materiale. Gli ideali del liberalismo classico espressi e sviluppati nella forma del socialismo libertario sono realizzabili. Ma può farlo solo un movimento rivoluzionario radicato in ampi strati della popolazione che miri a eliminare le istituzioni repressive e autoritarie, private o statali. Creare un movimento di questo tipo è la sfida che dobbiamo cogliere se vogliamo sfuggire alla barbarie moderna.
(«il Recensore.com», 8 gennaio 2009)