Sono su un volo della RyanAir diretto a Frankfurt-Hann, in Germania, da Roma Ciampino: nessuno del personale parla italiano e tutti gli annunci vengono dati solo in inglese. Del resto, low cost = low service: vale in tutto il mondo il detto “lo sparagno non è guadagno”. E io non mi sorprendo.
Mi sorprendo quando sento un annuncio in italiano, primo e ultimo: comunicano che è possibile acquistare a bordo schedine del “Gratta e vinci” con riscossione immediata dei premi. A quel punto la nausea mi assale, e non a causa del viaggio: ma insomma, è possibile che l’unico messaggio nella mia lingua debba essere proprio quello? Perfino le norme di emergenza me le hanno spiegate in inglese e a gesti. Che immagine hanno questi signori del nostro, del mio popolo?
Mi stizzisco, ho un moto d’orgoglio, progetto rappresaglie. Poi, a mente fredda, rileggo un po’ di dati: quella del gioco d’azzardo è la quinta industria d’Italia, con un fatturato di oltre 42 miliardi di euro nel 2008 (in crescita; cifra tripla rispetto a quella di soli 3 anni fa); i Monopoli di Stato hanno già dato vita al “10 e lotto”, con estrazioni ogni 5 minuti (sì, avete letto bene: ogni cinque minuti); dulcis in fundo, la provincia di Caserta è ai primi posti della graduatoria relativa al numero di giocatori d’azzardo online. Roba per stomaci forti.
Il Win for life permette di vivere con quattromila euro al mese per vent’anni senza lavorare.
Ma come sarà il 7.306-esimo giorno?
Ma come sarà il 7.306-esimo giorno?
La ciliegina sulla torta è il recente “Win for life”: in palio non c’è un montepremi più o meno ricco, ma un vitalizio ventennale di 4.000 euro mensili (cui la Wikipedia italiana dedica un’ampia pagina di spiegazioni). Si gioca per “sistemarsi”, per ovviare alla mancanza di stipendio con una “rendita” (ma da che?), per coronare il proprio sogno di vivere senza obblighi né orari. Potremmo fare i moralisti (non mancano le argomentazioni), oppure domandarci, semplicemente: cosa succederà al vincitore il primo giorno del ventunesimo anno?
Mi trovavo tempo fa in compagnia di un ufficiale dei carabinieri quando questi ricevette un fax: era la notizia della scarcerazione di un soggetto plurirecidivo di quasi quarant’anni. Cosa che commentò dicendo: “vedi, questa persona non ha fatto altro che rubare per tutta la sua vita. Ora, uscito dal carcere, cosa pensi che farà? Pensi che imparerà un mestiere e si metterà a lavorare onestamente?”
Pessimismo, cinismo, deformazione professionale? Può darsi. Ma mi fece riflettere. Cosa mi metterei a fare io, all’età che ho oggi, se in tutta la vita non avessi fatto altro che “tirare a campare”?
Alla domanda precedente (“cosa succederà al vincitore il primo giorno del ventunesimo anno?”) ho paura di rispondere. Soprattutto perché non sono sicuro che chi sta giocando per “sistemarsi” sia consapevole di star in effetti progettando l’esatto contrario: cioè il suo futuro tracollo. Questo è infatti il modo migliore per rovinarsi, non per sistemarsi: anche perché si sa che si impara presto a vivere al livello delle proprie possibilità solo quando queste sono in aumento. La posta in gioco qui non è il premio, ma quello che saremo domani (o tra vent’anni, non fa molta differenza). Ciò che fa differenza è che oggi possiamo essere noi a scegliere cosa vogliamo essere... o possiamo affidare la scelta al caso. Ma è comunque una scelta da fare oggi. Domani è tardi. Live your life.
(«Il Caffè», 8 gennaio 2010)