Odio la pubblicità. La seconda industria al mondo per fatturato annuo, dopo quella delle armi; quel “culto osceno delle voglie”, come la apostrofa il filosofo francese Bellet. Ma, d’altro canto, la adoro: dalla risata contagiosa del gorilla del Crodino alle brucianti foto di Toscani per la Benetton, anch’io ne subisco il fascino incantatore.
Però quando la pubblicità è ingannevole, perdo le staffe. Perché il suo danno viene raddoppiato e perché ho l’impressione che anche la sua bellezza ne venga in parte offuscata. A volte non si tratta neanche di vere e proprie menzogne: ad esempio, la Microsoft (più volte multata dal garante europeo per la concorrenza) è solita affermare tutt’oggi che - per valutare in maniera “oggettiva” la semplicità di utilizzo di un software a paragone con i concorrenti - basta porre un utente davanti ai due programmi e riscontrare in quale caso egli è più rapido nell’effettuare certe operazioni. Sembrerebbe giusto, se non fosse per il fatto che questo test trascura un piccolo dettaglio: l’ambiente Windows è stato talmente tanto digerito negli scorsi decenni da almeno due generazioni di utenti che oggi nessuno che non sia uno specialista conosce altri software meglio di come conosce quelli Microsoft. Il test non premia dunque il software intrinsecamente più semplice da usare, bensì quello cui siamo più abituati. Pagella: 3 per la comunicazione, e 0 in condotta.
Bisogna ripensare la pubblicità, ma anche il nostro modo di guardarla
Ma la notizia di oggi non riguarda Microsoft, bensì Danone e Unilever, produttori rispettivamente di Danacol e di Pro-Activ, multate (per 250.000 euro la prima, 100.000 la seconda) dal garante della concorrenza per aver praticato strategie pubblicitarie scorrette: pur senza mettere in dubbio le proprietà di questi prodotti sedicenti “anti-colesterolo”, il garante ha affermato che le campagne pubblicitarie non hanno offerto ai consumatori tutta l’informazione necessaria a prendere delle decisioni ponderate.
Le due multinazionali escono paradossalmente rafforzate da questo verdetto. Perché, insomma, quanta informazione si può mettere dentro a uno spot televisivo di pochi secondi? Tuttavia il punto è un altro: cosa rimane veramente impresso nella mente di chi guarda quello spot? Non si può declamare un bugiardino per intero durante la pubblicità... ma si può dare al proprio prodotto - parente dello yogurt - un nome che sembra quello di un medicinale. Si può enfatizzarne il potere “terapeutico”, scrivendo piccolo piccolo, subito dopo, che va usato “in associazione a un’alimentazione sana e a una regolare attività fisica”. Si può cospargerne il sito ufficiale di camici bianchi, di prove scientifiche, di un test per la valutazione del proprio rischio cardiovascolare (tié) e perfino di un call-center presso il quale dei medici rispondono alle domande del pubblico. Tutto gratis. Vien quasi da pensare che è scemo chi non telefona.
Stando così le cose, il problema non è il singolo spot o il singolo termine usato, ma questo modello di pubblicità, che suggestiona e blandisce invece di informare. Ed è una civiltà che - presa da ogni lato da mille paure - non sa che altro fare se non affidarsi agli “esperti” per ogni minima cosa. La pubblicità va ripensata; ma la prima cosa che dovremmo seriamente ripensare è il nostro modo di guardarla.
(«Il Caffè», 20 novembre 2009)