venerdì 30 ottobre 2009

Z. Bauman, Vite di corsa, ed. il Mulino, 2009

Il nostro tempo verrà probabilmente ricordato come quello in cui nessuno aveva tempo, chi aveva tempo lo passava a “lavorare di più per guadagnare di più” (Sarkozy) e tutto il (poco) tempo libero lo si saturava di divertimenti e relax organizzati e a pagamento (primo fra tutti, la televisione).
Il tempo è al centro dell’indagine dell’ultimo libro di Zygmunt Bauman, Vite di corsa, dell’editrice il Mulino (volume che riproduce la lezione magistrale tenuta dal sociologo polacco a Bologna, in occasione dell’inaugurazione dell’anno scolastico 2007-2008). Che ne è del tempo nella modernità liquida, al cui potere “dissolvente” né gli uomini né le istituzioni riescono a resistere (i primi sempre più tecnologicamente connessi ma sempre meno umanamente legati, sempre più individui e meno persone; le seconde soggette a un mutamento così incessante e rapido da renderle irriconoscibili, e di fatto inutilizzabili come riferimento)? Il tempo, risponde l’autore, non fa eccezione, anche l’attimo è soggetto a quel processo di atomizzazione (che nel testo viene chiamato «puntillizzazione», p. 33) che coinvolge ogni cosa: esso viene tagliato via dal flusso del tempo e privato delle due estremità che lo collegavano al passato e al futuro. Con uno scopo ben preciso:
la discontinuità verso il passato ha il compito di far sì che ad esso non venga mai consentito di riprendere l’io in fuga. La discontinuità verso il futuro è la condizione per vivere pienamente il momento, per abbandonarsi totalmente e senza riserve al suo fascino (p. 34).
La prerogativa del nostro tempo non è dunque l’accelerazione (tipica già dell’epoca industriale), bensì la compressione, necessaria a vendere la maggior quantità possibile di oggetti consumabili all’uomo (la cui vita è – almeno per ora – limitata), ma soprattutto necessaria a tenere quest’uomo-consumatore perennemente concentrato sulle possibilità d’acquisto (perché se il consumatore si fermasse anche un solo attimo a domandarsi se ha veramente bisogno di acquistare una certa merce, il mercato collasserebbe). Per la prima volta nella storia dell’umanità ci troviamo di fronte a un tempo che non è più né ciclico né lineare, bensì puntillistico,
ossia frammentato in una moltitudine di particelle separate, ciascuna ridotta a un punto che sempre più si avvicina all’idealizzazione dell’assenza di dimensione (p. 56).
Un sintomo evidente di questa trasformazione è l’importanza che sempre più spesso la nostra società riserva alla memoria. Una società che non dimentica, che fa tesoro del proprio passato, non ha bisogno di sollecitare a se stessa la memoria (anzi, essa non avrà neanche la percezione della sua propria memoria, se non quando inizierà a perderla); la nostra tendenza a conservare la memoria è proprio il sintomo del nostro essere una «civiltà del transitorio», dell’oblio (p. 73). Bauman, richiamando l’osservazione del sociologo francese Singly, fa notare come alla modernità non si addica tanto la metafora dello “sradicamento” quanto quella dell’“issare l’ancora”. Laddove l’identità sociale dell’individuo non viene definita una volta per tutte a partire dalla paideia (cfr. Intervista sull’educazione, già recensito per «Filosofia.it», maggio 2009), ma viene rimodellata istante per istante al ritmo del social networking, l’idea di uno sradicamento dell’individuo – che implica «un atto una tantum di emancipazione individuale dalla tutela della comunità di nascita, e il carattere definitivo e irreversibile di tale atto» (L’arte della vita, già recensito per «Filosofia.it», luglio 2009, p. 106) – va più opportunamente sostituita con quella del “levare l’ancora”: un’ancora può infatti essere levata e nuovamente gettata senza alcuna definitività, può essere utilizzata in porti anche molto distanti e molto diversi tra loro e – a differenza delle radici – non restituisce alcuna informazione su quello che la nave è veramente (mentre le radici e la forma dell’albero sono collegati). A completamento della metafora, va sottolineato che il mezzo in cui le radici attecchiscono è solido (terra), mentre il mezzo dell’ancora è liquido (acqua).
Ecco come le nostre vite, esposte alla miscela dell’accelerazione e della compressione del tempo, divengono così “vite di corsa”. Ecco infine che la stessa eternità – terra promessa di generazioni e forse di intere specie umane – viene per così dire trapiantata nella dimensione dell’attimo: il classico memento mori cede il passo al moderno carpe diem. “Un diamante è per sempre”, purché tu lo possegga ora.

(«Filosofia.it», ottobre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano