La pubblicità, con le sue metafore militari, i suoi “arsenali” di armi “sofisticate”, le sue “campagne” e le sue “strategie”, è l’oggetto del libro Miseria umana della pubblicità (Elèuthera, 2006). In cui si parla di come essa, inizialmente nata come asettica informazione circa le novità prodotte e disponibili sul mercato, sia gradualmente e inesorabilmente scivolata verso il suo opposto, verso la più smaccata disinformazione, il cui unico scopo è innescare la voglia di comprare, piuttosto che indurre razionalmente a domandarsi: “ho veramente bisogno di un prodotto dalle caratteristiche tali e tali?” Solo in tal modo la pubblicità può essere in grado di vendere qualunque cosa, anche la più inutile e pericolosa, ma soprattutto può vendere quel surplus di produzione che è la prerogativa dell’industria dei nostri giorni:
la pubblicità [...] è l’arte di vendere qualsiasi cosa a chiunque e con qualsiasi mezzo (p. 19).Ma nel libro si parla anche e soprattutto della “miseria umana” della pubblicità, cioè del prezzo che l’uomo è chiamato a pagare a questa voce onnipresente (si calcola che un uomo riceva mediamente dai 1.500 ai 7.000 messaggi al giorno). Miseria che ha due facce, come due sono le classi in gioco qui: i “consumatori” e i “pubblicitari”. I primi, ridotti a “recettori di slogan” da parte di una macchina mediatico-pubblicitaria che realizza spettacoli su misura per un certo tipo di réclame, come quelle trasmissioni televisive insulse il cui unico movente è quello di rilassare lo spettatore al fine di predisporlo nella maniera migliore all’ascolto del messaggio pubblicitario. Così ad esempio il presidente di TF1, il più potente canale televisivo francese:
la vocazione delle nostre trasmissioni è proprio quella di creare tale disponibilità: facendo divertire il telespettatore, rilassandolo e preparandolo nello spazio tra due messaggi. Ciò che vendiamo alla Coca-Cola è tempo di cervello umano disponibile», p. 35.Ma non di meno i secondi, costretti nell’ipocrisia di far credere alle aziende che la pubblicità è efficace perché l’opinione della gente può essere realmente manipolata, allo stesso tempo in cui dicono alla gente che i loro sono soltanto “consigli per gli acquisti” e che ogni scelta rimane libera. La contraddizione di essere lavoratori e consumatori come gli altri e al tempo stesso di non potersi sottrarre al primo comandamento del pubblicitario:
non trattare mai i consumatori da idioti, e non dimenticarti mai che lo sono davvero.Il materiale raccolto è piuttosto vasto, il tono a volte esacerbato, ma il resoconto è interessante e scorrevole. Ciò che è un po’ limitante è che il libro, tradotto dal francese, faccia spesso riferimento alla situazione e alle statistiche della Francia, e solo di rado tenta un paragone con la situazione italiana; limite tuttavia di second’ordine, data l’ampiezza e la generalità della riflessione proposta.
Tra le opinioni di specialisti, di addetti al settore, di pubblicitari pentiti e dei cosiddetti movimenti “antipub”, apertamente contrari alla pubblicità (come ad esempio “Adbuster” e “Casseurs de pub”, entrambi fondati da ex pubblicitari), il gruppo Marcuse spiega che la pubblicità è un fenomeno a “rendimento decrescente”, che ha bisogno di aumentare costantemente per fare in modo che l’attenzione dei consumatori – soggetti all’assuefazione, proprio come nella tossicodipendenza – non cali al punto di smettere di fare un certo tipo di acquisti. Gli eccessi cui la pubblicità è soggetta e a cui sottopone il suo pubblico, cioè tutti noi, non sono dunque un problema contingente e confinato, ma la sua stessa essenza; la pubblicità è efficace solo in quanto diventa sempre più invasiva. Il nemico è il cliente, il campo di battaglia è lo spirito del consumatore (p. 33). In guerra, si sa, non c’è nulla di illecito.
(«il Recensore.com», 5 ottobre 2009)