lunedì 5 ottobre 2009

Il sacro e il divino nel terzo millennio

“Il mondo è bello perché è vario” recita un vecchio adagio; anche troppo, potrebbe venir voglia di replicare dopo aver letto Oltre il New Age, recentemente edito da Bulzoni, dove per quasi trecento pagine il lettore è invitato a gettare uno sguardo sull’ampio e variopinto panorama delle nuove religioni di questo terzo millennio, dal satanismo alle recenti forme di paganesimo, dalle religioni naturali (come ad esempio la “spiritualità del surf”) al transumanesimo (la religione dell’individuo postumano, “ad-veniente”), fino alle “mock religion”, che si prendono gioco delle religioni ma che non di meno (o forse proprio per questo) non rinunciano ad autoattribuirsi l’etichetta di “religione”.
Insomma, battuta a parte (nell’epoca del dialogo interculturale non si può che dare il benvenuto a ogni nuova forma di comprensione della realtà), l’orizzonte è appunto tanto vasto da mettere in crisi la stessa categoria di religione: se infatti essa deve poter includere forme tanto diverse e in parte perfino contraddittorie di religiosità, il rischio è che – per contenere tutto – il contenitore finisca per perdere di significato: “dove tutto è religione, niente è religione” (p. 134). Questo almeno sul piano dottrinale: ogni sedicente religione rivendica il proprio status di religione, di via spirituale, rifiutando al contempo di venir classificata dall’esterno da parte di altre aspiranti al titolo – come ad esempio il cristianesimo. D’altro canto, nulla vieta di considerare ciascuna di esse come una porta per l’accesso a una genuina esperienza religiosa, a prescindere dalla compatibilità dei rispettivi impianti teoretici (il cristianesimo che voglia entrare in dialogo con il buddhismo, ad esempio, deve ammettere la possibilità che si dia una “religione senza Dio”, così come, per converso, il buddhismo deve ammettere la possibilità di una incarnazione divina; pena la fine del dialogo stesso).
A dispetto della enorme diversità tra queste forme religiose contemporanee, tuttavia, due cose sembrano emergere in comune a molte di esse (anche se, certamente, non a tutte). In primo luogo, il loro definirsi per via negativa anziché positiva, tipicamente in aperto rifiuto o negazione del cristianesimo: è il caso del satanismo (fenomeno nato in California intorno agli anni ‘60, che oggi conta – secondo Danila Visca, docente ordinario di Storia delle Religioni presso l’Università “La Sapienza” di Roma – non più di 5.000 adepti in tutto il mondo; cfr. pp. 37 e passim), del neopaganesimo (fenomeno legato all’appartenenza familiare ed etnica, per il quale vale l’equazione naturale=sacro e in cui il Divino coincide con l’Universo, fondato su di una connotazione privativa: «sono (neo)pagano non tanto per ciò in cui credo, quanto per ciò in cui “non credo”, nello specifico il cristianesimo», p. 60) e di tante mock religion, sovente costruite declinando in maniera ridicola un determinato culto già esistente (come nel caso dei Pastafariani, adoratori del Mostro volante di spaghetti, la cui idea – a partire dal nome – si ispira ai Rastafarian, seguaci del culto giamaicano legato alla figura del defunto negus Hailé Sélassié; cfr. pp. 247 e passim).
In secondo luogo, l’esaltazione estrema dell’uomo, «signore e padrone d’ogni suo agire e pertanto artefice del suo destino» (così per il satanismo, p. 40), dell’essere umano in quanto «padrone della sua persona» (così per il neopaganesimo, p. 65), dell’uomo in grado di
dirigere il proprio cammino evolutivo tramite le proprie risorse scientifiche e tecnologiche: l’umanità [...] è essa stessa e non più la natura a deciderne il cammino e la direzione [...] la natura umana è argilla nelle mani degli scienziati, e l’umanità non è (altro) che l’anello fra il pre-umano e il post-umano (pp. 185-187).
Quest’ultima è la posizione del cosiddetto transumanesimo, fenomeno sviluppatosi negli ultimi due decenni, la «visione più radicale che si possa trovare attualmente in circolazione» secondo Nicola Mapelli, collaboratore della citata cattedra universitaria (p. 187), della quale tutte le religioni sono epidermicamente antagoniste, in quanto
il transumanesimo, in ultima istanza, viene a dire che le religioni sono inutili: l’uomo basta a se stesso (p. 201).
Si impone un’osservazione. Risalendo alla radice delle due caratteristiche appena menzionate, si scopre quanto esse affondino nel terreno dell’opposizione al cristianesimo: ci si definisce per via negativa per sottolineare il proprio rifiuto del cristianesimo; si esalta l’uomo al di sopra di ogni cosa proprio per rovesciare l’”ordine cristiano”, che vuole Dio (creatore) al di sopra di ogni cosa e in particolare dell’uomo (creatura come ogni altra, seppur prima tra le uguali). È evidente la presa di posizione contro un certo tipo di religiosità, a base di doveri morali e sentimenti di pietà imposti, meno inadeguato a un’epoca medievale e corporativa che a quella presente, democratica e individualistica; non è un caso infatti che tutti questi nuovi orientamenti religiosi nascano proprio nell’Occidente di tradizione cristiana. A una spiritualità per la quale l’individuo è in partenza un peccatore, la quale pretende di stabilire a priori come egli dovrebbe essere, si oppone la pretesa di lasciare al singolo la libertà di essere come vuole, a partire da ciò che è. Alla fine dello scontro, è proprio questa spinta individualistica a prevalere: perciò, come conclude Visca, non ci troviamo infine di fronte a uno scenario di declino del cristianesimo e di ascesa dei nuovi culti, ma davanti a un tracollo di tutte le forme di religiosità organizzate, istituzionalizzate; a emergere è soltanto la tendenza a costruirsi una religione fai-da-te, a propria specifica misura, sincretica fino al personalizzato. C’è però anche un rovescio della medaglia o, se si vuole, un lato positivo: questa spinta alla “personalizzazione” deriva in parte da una genuina ricerca individuale dell’esperienza del divino, che possa travolgere e illuminare come solo il sacro può fare. Non nel senso dell’estasi mistica, ma in quello dell’incontro con quel “qualcosa” in grado di riempire la vita dell’uomo e di imprimerle una direzione e un significato. Dopo fiumi di superficiale e di profano, è del sacro che si torna ad aver sete.

L’esperienza del sacro, tra il possibile e il reale
In questo punto difficile ma vitale si inserisce la riflessione di Felice Cimatti, docente di Filosofia della Mente presso l’Università della Calabria. Il professore parte appunto dal dato della “morte di Dio” (cioè nello screditamento definitivo di quell’immagine di Dio costruita dall’uomo, che si pretendeva di poter gestire, controllare, manipolare intellettualmente a proprio piacimento) e distingue il sacro (relativo all’ambito dell’esperienza) dalla religione (relativa invece all’ambito della credenza). Il sacro non deriva dall’esigenza di trovare un punto d’arresto al regresso all’infinito nella catena delle cause (piano intellettuale o logico), né da un travolgimento estatico dovuto a un evento straordinario (piano emotivo): il sacro appare invece «proprio all’intersezione tra logico ed emotivo» (p. VIII), in quella zona di confine in cui l’altro-da-me cessa d’improvviso di essere l’oggetto di una mia rappresentazione mentale e mi si manifesta come soggetto, portatore di una propria ricchezza, novità, inesauribilità peculiari. In termini più filosofici, questa esperienza parte dalla constatazione che l’Essere eccede sempre ogni Pensare, che il Reale è sempre di più di quanto previsto, descritto, calcolato da ogni schema teorico, per quanto complesso o raffinato. L’esperienza del sacro è quella di colui che riesce a vedere il volto dell’altro al di là del semplice viso, entità materiale da sfruttare a proprio vantaggio: presupposto ne è un atteggiamento privo di secondi fini, che il cristianesimo ha descritto come “cuore puro” e che il buddhismo chiama ad esempio “cuore vuoto”.
È dunque in questa dialettica asimmetrica tra essere e pensare che vive il sacro, non in un assoluto o in una trascendenza che si trovi “al di là dell’essere”. Non solo quindi il sacro non ha niente da spartire con credenze o dogmi di alcun genere, ma neppure rimanda ad alcuna trascendenza o aldilà: la facoltà di fare l’esperienza del sacro si trova sullo stesso piano “biologico” del parlare e del respirare. Infatti, il sacro appare e può essere percepito (si pensi ancora all’esempio del volto dell’altro): in questo è dunque del tutto immanente e nient’affatto trascendente. Esso, semplicemente si trova oltre i confini di quella particolare razionalità che pretende di esaurire ogni cosa, in linea di principio, nell’ambito della propria spiegazione (e che, per contro, rifiuta ogni validità a ciò che essa non riesce a com-prendere, ad afferrare):
il cristianesimo dice propriamente: lascia cadere ogni intelligenza [Wittgenstein]. Il che non vuol dire diventa stupido, ma esci dal gioco di ciò che è stupido e ciò che è intelligente, di ciò che è razionale e ciò che non lo è. Se vuoi vedere il sacro rinuncia al desiderio ossessivo di spiegare (cioè ricondurre un oggetto a qualcos’altro), e solo allora lo potrai scorgere, al di qua dell’intelligenza (e della stupidità) (p. 51).
In questo pregiudizio razionalistico che autolimita a monte l’ambito dell’esperibile, cieco di fronte a tutto ciò che ha deciso di escludere a priori, risiede per Cimatti la povertà del pensiero che riduce tutto a oggetto di scienza. Ciò che esemplifica nel rapporto tra il sacro e il bello; citando Simon Weil, spiega che il bello implica un paradosso: lo si desidera, ma senza volerlo mangiare; ci si vorrebbe unire al bello, ma bisogna rispettarne la giusta distanza, al di là e al di qua della quale esso svanisce. In questo paradosso
c’è tutta la miseria delle teorie che vedono il sacro come un tentativo non scientifico, “magico”, di spiegazione. Il bello non si spiega, non c’è nulla da spiegare qui, si tratta soltanto di avere l’umiltà di osservarlo. E dev’essere uno sguardo che non chiede nulla al bello, soltanto di poterlo osservare con attenzione, perché ogni richiesta limita il possibile, e quindi lo riporta nel campo del profano (p. 55).
A quella scienza che riconduce la nascita della religione alla paura e al conseguente bisogno di protezione, Cimatti domanda:
perché un certo fenomeno, positivo o negativo, appare come particolarmente significativo, e viene collocato su un piano esistenziale diverso rispetto al mondo profano? Perché questa differenza?
È il caso lampante della morte, che per nessun altro animale che l’uomo costituisce un problema anche prima di morire; e ciò nonostante il fatto che oggi la scienza fornisca una consistente mole di spiegazioni razionali al come e al perché della morte. Ma si potrebbero portare tanti altri esempi:
una nuvola, un albero in una radura, il movimento elegante di un animale, il sorriso di un amico, la mano di un neonato, il saluto di chi parte sono forse meno stupefacenti perché abbiamo buone spiegazioni naturali, evoluzionistiche del loro perché? C’è forse molta paura all’origine della religione, forse, ma perché lo stupore stupisce? (p. 57).
Non c’è risposta “scientifica” a questa domanda. Del resto, la riconduzione del sacro alla paura non sembra adeguata: si può aver paura di qualcosa di determinato, come la sagoma di un leone che si vede avvicinarsi, ma il sacro atterrisce senza che se ne possa dare un motivo preciso. E ciò proprio perché il sacro ha a che fare con il possibile, non con il reale (o profano):
il sacro è il possibile, tutto ciò che potrebbe essere e (ancora?) non è (p. 93).
Sono dunque le scienze – quando accusano il religioso di autosuggestione – a non vedere il fatto del sacro: si tratta di un pregiudizio cognitivo, della conseguenza ineliminabile dell’aver precluso a priori la possibilità di essere di qualcosa che non rientra nell’ambito delimitato per la ricerca.
Ma cosa avviene del sacro, quel possibile non (ancora) realizzato, quando infine si realizza? Nient’altro che il riversamento nel profano, nell’ambito cioè delle cose che sono, qui e ora, proprio in questo modo e in nessun altro:
il profano non è altro che un possibile realizzato, una sorpresa rivelata, un inaspettato che ha infine assunto una forma determinata (p. 165).
Ciò mette al riparo dal sospetto di panteismo: pur negando ogni forma di trascendenza, il testo è chiaro e coerente nel sostenere che il sacro e il profano non coincidono (anzi, è sulla netta distinzione tra i due si fonda l’intero discorso).
Al “bisogno di divino” che, come accennato, la nostra epoca sembra manifestare, il libro risponde affermando che l’esperienza del sacro non è qualcosa di riservato a pochi spiriti “eletti”, bensì un’esperienza umana universale, accessibile a tutti gli uomini, in quanto essa è a un tempo bio-logica (cioè propria dell’animale umano, come il volare lo è degli uccelli) e bio-logica (cioè fondata sulle potenzialità logiche del linguaggio dell’Homo sapiens, in grado di esprimere – e individuare – il possibile, ciò che potrebbe essere, diversamente da ciò che è – cioè appunto è in nuce e si fonda sulla libertà – e non solo il reale – cioè ciò che è, così com’è). La celebre chiusa di Amleto: «Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia» (Atto Primo, Scena V), non è la triste accettazione della propria impossibilità di comprendere tutto, ma la constatazione di essere solo una parte del Tutto (accompagnata non dalla frustrazione della limitazione, ma dalla gioia di farne parte). Per vedere il tutto nella parte non c’è bisogno di una conoscenza enciclopedica o di una tecnologia raffinata, bensì di un atteggiamento disinteressato e aperto, umile e innocente. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt5,8).

(«Il Margine», n° 8, ottobre 2009, pp. 33-38).

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano