lunedì 19 ottobre 2009
Invito al pensiero di Ivan Illich/1. La convivialità
L’unico possibile lettore è quello che è disposto a mettere l’amicizia al di sopra della controversia.
MAURICE BELLET
A tutto c’è un limite: ecco cosa risponderei a chi mi chiedesse di sintetizzare in una sola unica frase la riflessione di Ivan Illich (1926-2002), pensatore austriaco e prete cattolico che ha lasciato una quindicina di opere e uno stuolo di intellettuali che si ispirano più o meno direttamente a lui (tra i quali Serge Latouche, professore francese di economia che si è dichiarato debitore nei confronti di Illich proprio della sua idea fondamentale, la decrescita: cfr. La sfida della decrescita, ed. l’Altrapagina, 2008). Ben consapevole del fatto che è impossibile ridurre a questo un pensiero che ha spaziato dalla filosofia alla sociologia, dalla storia alla linguistica, dagli studi sul lavoro a quelli sulla medicina contemporanea. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare, e allora parto proprio da qui, con le parole dello stesso Illich:
se vogliamo poter dire qualcosa sul mondo futuro, disegnare i contorni di una società a venire che non sia iperindustriale, dobbiamo riconoscere l’esistenza di scale e limiti naturali. L’equilibrio della vita si dispiega in varie dimensioni: fragile e complesso, non oltrepassa certi limiti. Esistono delle soglie che non si possono superare (La convivialità, ed. Boroli, p. 14).Oltre una certa soglia, qualunque “invenzione” sociale diventa controproduttiva, si rivolge cioè contro i fini originariamente prefissi e si rivela dannosa per l’uomo, anziché d’aiuto. È il caso ad esempio dell’automobile, inizialmente utile ad andare più veloci ma poi, una volta giunta alla portata di tutti, creatrice di ingorghi e di problemi: perché a quel punto l’uomo non solo non è più in grado di andare veloce come vorrebbe, ma si trova in una situazione che glielo impone (ad esempio, l’esigenza di spostarsi verso un luogo di lavoro distante da casa, problema che prima – prima della diffusione dell’automobile – l’uomo non aveva). Illich osserva anche che la produzione industriale di massa, oltre a essere intrinsecamente controproduttiva perché votata alla crescita infinita (piuttosto che, come si diceva, al riconoscimento di un limite invalicabile), è foriera di ingiustizia sociale (perché dall’ingorgo può venir fuori solo chi può permettersi l’elicottero: ed è chiaro che l’elicottero non possono permetterselo tutti, contrariamente alle promesse vane della tecnologia, che propaganda un illusorio mondo pieno di soluzioni e privo di problemi): ciò corrisponde a uno stato di cose innaturale, il cui costo di mantenimento è l’infelicità dell’uomo.
Illich immagina un tipo di società diversa, più giusta (anche se non si fa alcuna illusione circa una giustizia perfetta), nella quale le risorse (in termini sia materiali sia energetici sia ancora di possibilità) siano più equamente distribuite tra gli uomini, e dove ognuno abbia alla propria portata gli strumenti di cui ha bisogno nel suo quotidiano operare e realizzare se stesso: «chiamo società conviviale una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio controllo. Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intezioni» (p. 15). Premesso che il sogno della tecnologia di liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro è stato infranto da un pezzo (anzi, c’è chi sostiene lo abbia ulteriormente asservito: cfr. ad es. M. Ames, Social killer, ed. ISBN), Illich spiega che l’uomo ha bisogno di uno strumento con il quale lavorare, non di un’attrezzatura che lavori al suo posto, e che la convivialità si trova agli antipodi della produttività industriale (p. 28). È una questione morale, non organizzativa, perché non si tratta di una mera riorganizzazione delle strutture economiche, ma di preparare
un mondo in cui ognuno possa essere ascoltato, nel quale nessuno sia obbligato a limitare la creatività altrui, dove ciascuno abbia uguale potere di modellare l’ambiente che a sua volta poi determina i desideri e le necessità (p. 34).Per Illich la vita va vissuta nella gioia della reciprocità fraterna; l’uomo non è il mezzo che l’economia industriale usa per il fine dell’accumulazione della ricchezza. La giustizia è più importante della prosperità materiale, e l’amicizia tra gli uomini va sempre preferita a quella “guerra di tutti contro tutti chiamata concorrenza” (Marx).
L’“uomo-macchina” figlio della società del consumo di massa non può aspirare a questa libertà; egli ignora la “sobria ebbrezza della vita” che appartiene invece a un altro tipo d’uomo, quello “austero”, il quale “trova la propria gioia nell’impiego dello strumento conviviale”. Non è una questione di scelta fra ricchezza e povertà, o fra spreco e risparmio o ancora tra efficienza e inefficienza. La scelta è piuttosto fra guerra infinita e pace perpetua, dove è chiaro per Illich che il primo tipo d’uomo è condannato a rimaner confinato nella disparità, nel conflitto e nell’inimicizia. Solo l’uomo austero puà aspirare invece alla gioia:
austerità non significa infatti isolamento o chiusura in se stessi. Per Aristotele come per Tommaso d’Aquino, è il fondamento dell’amicizia (p. 15).
(«l'Altrapagina», ottobre 2009)
Paolo Calabrò
Filosofia e Noir
Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano
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