martedì 15 settembre 2009

Ritratti: Albert Dunlap

Mi propongo, di tanto in tanto, di presentare dei ritratti di uomini che hanno caratterizzato la nostra epoca e hanno contribuito a renderla ciò che è. Personaggi che la nostra epoca ammira, che propone come modelli da seguire, come esempi di successo, come personalità “vincenti”.
Vorrei cominciare da Albert John Dunlap, nato in New Jersey nel 1937 (http://en.wikipedia.org/wiki/Al_Dunlap; purtroppo non esiste ancora una corrispondente pagina italiana. Le informazioni seguenti sono in buona parte tratte dall’ottimo studio di Mark Ames, Social killer, ed. ISBN, 2009). Chiamato “motosega” per motivi che appariranno subito chiari, Al Dunlap è uno dei più celebri “tagliatori di teste” americani (cioè esperti in licenziamenti di massa; il termine inglese corrispondente è l’eufemistico downsizer, cioè letteralmente “colui che riduce le dimensioni”). Rilevò la Scott Paper Co. nel 1994, licenziò 11.200 lavoratori (pari a un terzo della forza lavoro), fece salire le azioni del 225% e in soli diciannove mesi ne uscì con una plusvalenza di 100 milioni di dollari. Ma già nel 1967, quando aveva appena cominciato ad applicare il suo metodo a base di intimidazioni e licenziamenti, la sua fama era sufficiente a meritarsi minacce di morte.
La sua prima moglie, nell’ambito della causa di divorzio, lo accusò di averle puntato un coltello contro dicendole
mi sono sempre chiesto che sapore avesse la carne umana.
Era sadico, in particolare con i bambini, e utilizzava la paura come strumento di comando: i suoi dipendenti avevano paura di lui. A un giornalista incuriosito dalla presenza sulla sua scrivania di un certo numero di soprammobili rappresentanti bestie feroci, dichiarò: “mi piacciono i predatori”.
Ben fiero di tutto ciò, ha pubblicato un libro in cui racconta di sé e delle sue gesta (Mean Business, “Affari sporchi”, non tradotto in italiano) e in cui spiega che tutta la sua politica è indirizzata al bene degli azionisti; perché, se è vero che sono gli azionisti a rimetterci i soldi, è vero di conseguenza che un buon manager deve porsi come obiettivo la cura degli interessi degli azionisti (e propri, perché no?). Nella sua logica non c’è alcuna traccia di insensibilità, ma solo di razionalità economica, efficienza produttiva e rispetto per gli investitori.
Ancora una volta, il problema non è suo, ma nostro. Perché - tralasciando la psicopatia del personaggio - non è forse vero che anche noi vorremmo delle aziende efficienti, produttive e non sovradimensionate? Saremmo disposti a tenerci migliaia di lavoratori sul groppone, sapendo che è possibile farne a meno (e che anzi, dal punto di vista finanziario, sarebbe meglio farne a meno), pur di non licenziarli? Cosa avremmo fatto al suo posto? Se noi, d’accordo con l’ortodossia economica vigente, riteniamo che si debbano guadagnare più soldi possibile e nel più breve tempo possibile, e che la finanza sia il modo più veloce possibile per farlo, allora dobbiamo essere disposti fin d’ora a passare sulla vite degli uomini. Lo so, è banale, ma a volte lo è talmente tanto che non riusciamo più a ricordarcene: non si possono servire Dio e Mammona. O si persegue l’accumulazione della ricchezza o si persegue la felicità dell’uomo. Al Dunlap ha già scelto. Ora tocca a noi.

(«Il Caffè», 11 settembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano