Secondo la vulgata neoliberista, quello occidentale di oggi è il migliore dei mondi possibili, pieno zeppo com’è di “flessibilità” (e che c’è di più bello di una cosa flessibile, che può essere piagata e modificata in mille modi?), di “razionalità economica” (che cosa c’è di meglio, nell’epoca del trionfo della scienza e della tecnologia, che definirsi razionali?), di “libertà di scelta” fra miriadi di prodotti diversi (a chi invece piacerebbe essere schiavo di una scelta obbligata?).
Ma quale realtà si cela dietro questa patina di belle – e ambigue – parole? Ci aiutano a scoprirlo gli autori del volume collettaneo La politica del benessere, ed. L’Aperia, centrato sull’attualità del welfare state nell’epoca di quel neoliberismo che ne ha provocato la morte, pretendendo in più di farlo per il bene dell’umanità.
Secondo l’economia dominante la società non esiste e ognuno deve cavarsela da sé.
«Saremo forse fuori moda, ma a noi questo neoliberismo non piace».
AA.VV., La politica del benessere, ed. L’Aperia
«Saremo forse fuori moda, ma a noi questo neoliberismo non piace».
AA.VV., La politica del benessere, ed. L’Aperia
Giuseppe Ventrone, nel saggio che apre il libro, ci fa osservare che non è tutt’oro quel che luccica: dietro la “flessibilità” si nasconde la “precarietà” di coloro che “non possono permettersi” una moglie (o un marito), dei figli, una casa; effetto collaterale sminuito da un’economia centrata sulla crescita infinita e acefala della produzione e dei desideri, ma del quale non si possono ignorare le conseguenze, né sul piano umano né sul piano sociale: «è importante capire cosa si produce e perché, ovvero in quale sistema complessivo si muove la crescita economica, se nella direzione di uno sviluppo che risponda ai [bisogni dell’umanità] o al contrario in quella di un’accumulazione di ricchezze e potere nelle mani di pochi» (p. 7).
Oreste Ventrone ci parla delle “contraddizioni del sistema mondo”, mentre Enrico Gargiulo ci svela il “lato oscuro” del welfare state, che è servito (finché è durato) a tenere in piedi un delicato e occulto meccanismo al contempo di inclusione di alcuni e di esclusione di tutti gli altri. Poi, negli anni ’80, il thatcherismo e la reagonomics hanno diffuso una retorica – culminante nella tragica affermazione della Thatcher: “la società non esiste” – per la quale ogni uomo è un individuo, ogni individuo è imprenditore di se stesso e ogni intervento esterno è una perturbazione della competizione. Da quel punto a seguire, ciascuno è responsabile unico del proprio futuro: della propria formazione, della propria carriera, del proprio successo, perfino della propria salute (perché, in definitiva, in un mondo in cui tutti sono liberi di scegliere quello che preferiscono, nessuno può lamentarsi della propria condizione; posizione che non tiene conto dello scollamento tra libertà di diritto – cioè ad esempio l’assenza di ogni impedimento alla volontà di essere imprenditore – e libertà di fatto – cioè la circostanza reale per cui, ad esempio, mancano i capitali per avviare qualunque impresa). Ideologia alla quale del vecchio detto “ognun per sé e Dio per tutti” non rimane che la prima, necessariamente tronca, metà.
«Saremo forse un po’ fuori moda, ma a noi questo neoliberismo non piace» si potrebbe concludere citando da p. 10. Certe volte, essere inattuali è una scelta obbligata.
(«Il Caffè», 4 settembre 2009)