domenica 21 giugno 2009
V. Cesarone, Per una fenomenologia dell'abitare, ed. Marietti, 2008
L’ultimo libro di Virgilio Cesarone, continuazione del percorso intrapreso con il precedente Mondo e mito. L’analisi dell’esistenza mitica in Martin Heidegger negli anni di Sein und Zeit (Bari 2001), propone al lettore una riflessione sull’“abitare”, tema che Heidegger ha affrontato spesso nella sua corposa opera.
Il libro si apre con un’ampia presentazione del pensiero del filosofo tedesco, dalle sue radici fenomenologiche (nel loro rapporto dialettico di vicinanza-allontanamento dalle posizioni del maestro Husserl), alle influenze di Jünger, fino ai problemi dell’etica e del linguaggio. Cesarone non è avaro di esempi e di chiarimenti e non lesina spazio a nozioni chiave come quella della “indicazione formale” (formale Anzeige) o ad argomenti centrali come quelli dello spazio o del divino. Di questa generosità è però la conclusione a fare le spese: l’autore si concentra molto sulla spiegazione, affinché nulla rimanga in dubbio, ma non è poi altrettanto risoluto nel caratterizzare la sua personale prospettiva circa la fenomenologia dell’abitare, cui il titolo invita. Va detto del resto che la trattazione appare lineare e priva di incertezze, poiché il testo è scritto con padronanza dei contenuti ed attingendo alla bibliografia tedesca, francese e inglese. Ciò che sembra mancare, insomma, è una conclusione che raccolga le intuizioni disseminate nei capitoli e le esprima in maniera netta. Visto come introduzione al pensiero di Heidegger, il libro offre una panoramica piuttosto estesa, anche se non esaustiva, che spazia dall’ontologia all’epistemologia, dalla fenomenologia all’etica, dall’estetica al linguaggio. La mancanza di immediatezza di alcuni passaggi è resa comprensibile dall’innegabile complessità dell’autore trattato.
Cesarone mette subito in chiaro il suo punto di partenza: l’abitare è il tratto essenziale dell’umano (p. 21). In Heidegger questo punto emerge soprattutto dalla lettura che egli fa di Hölderlin; ma altrove (cfr. la Lettera sull’umanismo) il filosofo tedesco lascia intendere, attraverso la sua interpretazione di un frammento di Eraclito, che la questione dell’abitare è stata argomento di riflessione per il pensiero occidentale fin dalle sue origini (ivi). Cesarone evidenzia anche che, a suo avviso, quello dell’abitare è un tema che non affiora solo nel “secondo” Heidegger, cioè in quella fase dello sviluppo del suo pensiero successiva alla cosiddetta “svolta” (Kehre), ma che è già presente nei primi anni, ad esempio nelle lezioni friburghesi (pp. 32-33).
Ora, poiché «“l’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra”» (l’autore cita Heidegger, p. 86), la prima questione da indagare è quella della relazione che si instaura tra l’uomo e la terra, cui è dedicato l’intero capitolo secondo. Riflessione che culmina nella questione della misura, ovvero nella caratterizzazione di quest’epoca (l’epoca dell’essere-abbandonato dell’essere) come epoca della “dismisura”, del “gigantesco”, nella quale – persa ogni qualità – è la quantità stessa ad ergersi a qualità, ad un modo di essere privo di misura (p. 101). Epoca in cui si presume (qui nel doppio significato della “presunzione”) di poter tutto controllare, tutto dominare e – al limite – tutto creare (sogno-incubo-delirio dell’ingegneria genetica); in cui si crede di poter aver accesso a ogni mistero e, di conseguenza, di poter relegare nella superstizione o nel nulla assoluto ogni “residuo” di mistero, tutto ciò che non è scientificamente-razionalmente comprensibile. Caso lampante, ma non unico, è quello della traducibilità della lingua: «la pretesa traducibilità di una lingua è sinonimo di possesso del messaggio trasmesso dalla lingua stessa. Ma in questo modo, sembra dirci Heidegger, il mistero della lingua non viene nemmeno percepito come tale. Poeti e filosofi restano sempre intraducibili proprio perché attingono al mistero del linguaggio dal proprio essere-situati linguistico. Fare esperienza del linguaggio, dunque, significa abdicare alla volontà di dominio su di esso per riuscire a cogliere il legame intrinseco che lo lega al dono dell’essere. Questo fa sì che dimorare in una lingua, più che esclusiva appartenenza, significa costante esposizione, destinazione all’ascolto» (p. 240). Questa è la contemporaneità cui Cesarone, con Heidegger, si oppone: perché l’uomo è abitante del mondo e del linguaggio, non padrone. Al di là di ogni slogan, questo libro ci aiuta a ricordare l’antico monito di Periandro di Corinto ad aver «cura del tutto». Ciò di cui proprio ai nostri giorni, segnati dal riscaldamento globale e dall’“emergenza rifiuti”, abbiamo più bisogno che mai.
(«Filosofia.it», giugno 2009; poi «Giornale di filosofia.net», ottobre 2009)
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