venerdì 15 maggio 2009

Etica d'impresa/3


Abbiamo già parlato di “responsabilità sociale delle imprese” (CSR, in inglese; cfr. “Etica d’impresa/2”, 17/4/2009), tensione che le imprese nutrono verso gli aspetti sociali della propria attività economica, quali ad esempio la cura per l’ambiente e l’impegno a corrispondere una retribuzione equa. Alcune aziende decidono di certificare questo loro impegno tramite un organismo internazionale che rilascia la cosiddetta SA8000. Si tratta di una scelta – perché ovviamente non è obbligatorio: obbligatorio è solo il rispetto della norma statale – che le aziende fanno perché stimano, tra l’altro, di poter trarre un vantaggio economico dal presentarsi al loro pubblico con “un volto più umano”.
Tuttavia, alcuni economisti sono contrari a quest’idea del “capitalismo dal volto umano” e a quella di CSR in particolare. È il caso di David Henderson, autore del libro Gli affari sono affari (ed. Rubbettino, 2008), per il quale le aziende hanno un ben preciso ruolo primario, quello di generare profitto (p. 43), dal quale non devono essere distolte con inutili regolamentazioni.

Il punto non è dare “un volto umano al capitalismo”, ma assicurare che il ruolo primario dell’impresa sia svolto in modo più efficace.
D. HENDERSON, Gli affari sono affari, ed. Rubbettino

Questo per due motivi. In primo luogo perché ogni regola introdotta dall’esterno nel mercato non fa che alterarne (sempre in peggio) il funzionamento, riducendo le pressioni competitive fra le aziende e quindi il giovamento che l’intera collettività può trarre da un sistema produttivo perfettamente efficiente. In secondo luogo, perché Henderson ritiene scorretta in sé l’idea di umanizzare il mercato: «il punto non è dare “un volto umano al capitalismo”, ma assicurare che il ruolo primario dell’impresa sia svolto in modo più efficace» (p. 88). Insomma, conclude l’autore, le aziende devono disinteressarsi della responsabilità sociale non per cinismo o insensibilità, ma per fedeltà alla loro genuina missione, che è quella di produrre profitto. Quindi, della ricchezza (profitto) si occupino le aziende; della povertà (disoccupazione, indigenza, ma anche inquinamento) invece si occupi, of course, lo Stato.
Questa impostazione non mi convince. Il motivo fondamentale è che essa conduce a detestare lo Stato, colpevole di “drenare” verso il welfare una parte di quella ricchezza che le aziende hanno prodotto e di cui vorrebbero godere. Lo Stato diventa quindi un nemico da combattere: ragion per cui le aziende faranno sempre tutto il peggio possibile, inquineranno, assumeranno in nero, evaderanno il fisco (e poi lo Stato faccia il suo lavoro di controllore). Se le aziende non vengono investite in prima persona, completamente e per principio, della responsabilità sociale (che, come soggetti sociali compete a tutti indistintamente e in ogni momento: non si può essere cittadini-in-società a casa propria e imprenditori-sol-per-sé-e-contro-tutti in azienda), lo Stato – per prevenire e contrastare ogni violazione di legge – avrà bisogno di un controllore impiegato 24 ore su 24 da mettere accanto ad ogni controllato. Insomma, se noi non siamo cannibali, non è perché esista una legge che lo vieti, bensì perché la cosa stessa ci ripugna; e ci ripugna perché abbiamo interiorizzato una “norma” che non ci fa più fatica rispettare, anzi, ci farebbe fatica violarla (e l’efficacia del metodo è sotto gli occhi di tutti). Dobbiamo aspirare a un mondo in cui lo sfruttamento, l’ingiustizia e l’avidità ci ripugnino. O finiremo per mangiarci gli uni gli altri.

(«Il Caffè», 8 maggio 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano