giovedì 16 aprile 2009
Z. Bauman, Lavoro, consumismo, nuove povertà, ed. Città Aperta, 2008
La tesi di Bauman sulla vocazione della società dei consumi è ben nota: «la produzione di “rifiuti umani”, o più correttamente di esseri umani di scarto [...] è un risultato inevitabile della modernizzazione e un tratto inseparabile della modernità. È un effetto collaterale ineludibile della costruzione dell’ordine [...] e del progresso economico» (p. 140). Sembra importante sottolineare che il passaggio dalla società della produzione industriale a quella dei consumi (schematizzato nel primo capitolo del libro) è stato trainato tuttavia da una precisa e rivelatrice trasformazione della lingua e della visione del mondo che essa reca con sé.
Sono due le evoluzioni del vocabolario su cui Bauman si sofferma in questo testo: quella da “disoccupati” a “esuberi” e quella da “classe operaia” a “sottoclasse” (passando per “classe inferiore”). Il termine “dis-occupato” appartiene all’epoca in cui la società, sull’onda dell’ottimismo generato dal rapidissimo progresso industriale, pensava ancora in termini di piena occupazione; anche se la piena occupazione non veniva realizzata, essa costituiva sempre l’obiettivo, il punto di riferimento garantito dall’equazione: più occupazione = più produzione. Il disoccupato era quindi visto come “manodopera di riserva”, come risorsa in attesa di un impiego (più o meno imminente): «il termine disoccupazione, usato comunemente fino a ieri per designare chi non aveva un lavoro retribuito, racchiudeva il presupposto implicito della “normalità” dell’occupazione. Il prefisso “dis” denotava un’anomalia: un fenomeno strano, irregolare e temporaneo [...] L’obiettivo del “pieno impiego” rimaneva sempre all’orizzonte» (p. 106). Ma poiché, col passar del tempo, le speranze di una piena occupazione si facevano sempre meno verosimili, si ebbe a un certo punto un “mutamento di paradigma”, con l’introduzione di un nuovo termine, “esubero”, che a differenza dell’altro «non contiene alcuna promessa, sia pur indiretta o allusiva. Nessuna connotazione di “anormalità” [...] Diversamente dai “disoccupati”, che si trovano provvisoriamente senza lavoro ma si presume siano “ri-occupabili” [...] i lavoratori in “esubero” sono superflui, soprannumerari, non indispensabili» (pp. 106-107). Ecco che da “risorsa di riserva”, questi uomini passano ad essere direttamente un peso per la società, elementi che – tramite il welfare – drenano risorse a chi lavora.
Parassiti, insomma, immeritevoli, anche se non ancora veri e propri malfattori; ulteriore agghiacciante passaggio che avviene invece con la seconda trasformazione della lingua: da “classe operaia” a “sottoclasse”. Il termine “classe operaia” appartiene anch’esso all’epoca in cui ogni uomo ha una precisa collocazione e una sua funzione nell’ambito del processo sociale: l’operaio si trova in una specifica classe e contribuisce alla produzione industriale di un determinato bene. Egli non è né un aristocratico né un borghese, non ha i loro privilegi, ma ha tutto ciò che compete allo status della sua classe, che è qualcosa di ben definito e di inalienabile. Al suo contributo in termini di produzione spetta una ben precisa ricompensa, che egli merita, senza meno. Con il rafforzarsi della cosiddetta “mobilità sociale”, questa classe viene pian piano rimpiazzata dalla “classe inferiore”, quella di coloro che non si trovano certo all’apice della piramide sociale ma possono aspirare a scalarne i pendii: qui, seppur con l’introduzione di una connotazione dispregiativa, vi è comunque il mantenimento di un riferimento preciso a un ordine sociale, in cui gli “inferiori” continuano a far parte a pieno titolo del meccanismo.
Ben diversamente accade nel caso della “sottoclasse”, gruppo definito per negazione, composto da «persone che non appartengono a nessuna classe o gerarchia, e non hanno alcuna possibilità o necessità di esservi riammesse, prive come sono di qualsiasi ruolo o utile funzione da svolgere per gli altri» (p. 110), cui appartengono poveri che non lavorano, ragazze madri, giovani che hanno abbandonato la scuola, senzatetto, accattoni, alcolisti, drogati e delinquenti. Cos’è che accomuna questa massa così variegata di “scarti umani”? Sempre per via negativa, ciò che li accomuna è la discriminazione di cui sono fatti oggetto da parte dei “sani” della società, quelli che lavorano, guadagnano e rispettano la legge. Ma l’espediente di mettere insieme disagiati e farabutti ha una pesante ricaduta sociale: infatti, porre poveri e criminali nello stesso gruppo significa qualificare entrambi come “antisociali”, significa dire che rubare e accedere all’assistenza sono in fin dei conti la stessa cosa. Significa insinuare il sospetto che siano tutti parimenti (anche se non ugualmente) pericolosi: e che, perciò, vadano tutti indistintamente respinti ai margini e tenuti d’occhio.
Così la povertà diventa un crimine; così, indirettamente, la società che crea gli “esuberi umani” provvede anche al loro smaltimento. Se a questa società serva una più efficace politica economica o piuttosto un recupero in profondità di ciò rende l’uomo “umano”, è dilemma che forse è giunto il momento di cominciare a sciogliere.
(«Filosofia.it» online, ISSN 1722-9782, febbraio 2009)
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