giovedì 16 aprile 2009
Z. Bauman, La libertà, ed. Città Aperta, 2002
Le odierne società occidentali sono attanagliate dalla frattura tra la grande quantità delle libertà dichiarate e la scarsità delle possibilità per realizzarle: così ad esempio viene garantito per legge il diritto di scegliersi il mestiere che si preferisce, ma di fatto si è senza lavoro. A torto, dunque, si concepisce la libertà come semplice assenza di impedimenti; è infatti esperienza quotidiana diffusa che tale assenza non è sufficiente a rendere tale libertà efficace.
Questa concezione della libertà (e la frattura che la accompagna) non è affatto universale, ma affonda le radici in una ben precisa realtà sociale, storicamente definita: quella occidentale, edificata sui due pilastri dell’individualismo e del capitalismo (p. 16). Da un lato l’affermazione di principio dei diritti individuali sanciti e garantiti dallo Stato, dall’altro l’assenza di ostacoli al libero svolgersi della propria intraprendenza nella sfera economica, il tutto accompagnato dal mito del “self-made man”, necessario a veicolare il messaggio: “Tu sei libero, dunque puoi tutto, dunque ogni fallimento sarà imputabile esclusivamente a te”. Meccanismo utile tra l’altro a demonizzare la povertà, a criminalizzare l’indigente come “fannullone”, che merita la propria condizione e va quindi tenuto ai margini della società “civile” (cioè abbiente; il tema della criminalizzazione della povertà è stato trattato nella recensione a Z. Bauman, Lavoro, consumismo, nuove povertà, «Filosofia.it», febbraio 2009).
Alla lunga, tuttavia, il meccanismo viene svelato, soprattutto nella palese difficoltà dell’uomo qualunque di accedere all’arena della competizione capitalistica: il mito dell’uomo che si è fatto da solo tramonta, di fronte all’evidenza che «un anno alla Harvard Business School [reca] più vantaggi di una vita intera di laboriosità, parsimonia, sobrietà e dedizione» (Bauman cita J. CAWELTI a p. 92). (Quindi, anche qui è una questione di possibilità a monte: un anno alla Harvard Business School costa più di quanto la grande maggioranza degli americani possa permettersi).
Diviene così evidente che la vera libertà di quest’epoca non è quella di “intraprendere”, ma la mera libertà di consumare: di scegliere cioè la quantità e il tipo di prodotti che si preferisce. Che è al contempo possibilità di autoaffermazione: nel possesso di beni inteso come status symbol, il soggetto può costruire e ostentare un’immagine di sé come di colui che si distingue da tutti gli altri proprio per le scelte che fa. Il capitalismo sembra in questo aver trovato una via maestra perché tale libertà, accessibile alla maggioranza, è perfino funzionale a mantenere in vita lo stesso sistema economico: «il successo come distinzione simbolica, raggiungibile tramite la rivalità tra consumatori [...] è il primo modello di libertà e di autoaffermazione individuale che, nella società capitalista, può essere seguito dalla maggioranza delle persone, non soltanto in fantasie indotte dall’ideologia ma nella vita concreta. [...] Con il consumo stabilito come punto centrale e terreno di gioco per la libertà individuale, il futuro del capitalismo sembra più sicuro che mai» (pp. 98-100).
Tuttavia questa libertà è una “grazia a metà”, perché al soggetto viene fatto carico del peso di tutto ciò che è necessario fare per realizzare la propria individualità e l’immagine che se ne potrà proiettare; ne scaturisce l’ansia, sintomo tipico di questi tempi, che si cronicizza e con la quale si impara a convivere. Perché ora il soggetto deve prendere se stesso nelle proprie mani, essendone completamente responsabile: meglio la cura o la prevenzione? Meglio accontentarsi del lavoro che si ha o aspirare a guadagare di più in condizioni diverse? Tutto è una questione di scelte; l’errore si cela dietro ogni angolo. Ciò priva il soggetto della propria serenità e anche della propria gioia, perché perfino morire viene letto qui come incapacità di prendersi cura della propria salute: «avendo eliminato le pastoie della comunità e della corporazione, le quali vincolavano i singoli alla posizione assegnatagli quasi perennemente, l’epoca moderna ha posto l’individuo davanti al difficile compito di costruire la propria identità sociale. Ognuno deve rispondere da solo a domande come “chi sono”, “in che modo devo vivere”, “chi voglio diventare” e, a fine giornata, ognuno deve essere pronto ad accettare la responsabilità delle risposte che si è dato. In questo senso la libertà è per l’individuo il destino cui non può sfuggire» (p. 101).
Al di fuori della libertà di consumare, non è data alla maggioranza nessun’altra libertà reale; essa è, oggi come ieri, riservata a una piccola parte della società, che detiene il potere di controllare quella altrui. Bauman spiega infatti che la libertà non è per nulla una caratteristica appartenente al soggetto in quanto individuo, bensì un prodotto sociale che si fonda sull’asimmetria delle condizioni sociali. In un’economia affrancata dai vincoli tradizionali di parentela, dovere, religione (tema affrontato nella recensione a Z. Bauman ed al., Della politica, «Filosofia.it», febbraio 2009), che si affida unicamente al rapporto mezzi-fini (per il quale solo l’obiettivo conta), anche l’individuo si affida al meccanismo mezzi-fini e lo fa in ogni ambito dell’esistenza: ecco che l’altro diventa una merce come un’altra, uno strumento per raggiungere il fine ambìto. Qui la libertà di trattare l’altro a proprio piacimento implica di necessità la mancanza di libertà dell’altro. La propria libertà è dunque possibile solo a prezzo di quella dell’altro: così Bauman porta alla luce «un’ambiguità intrinseca nella forma moderna della libertà, sposa del capitalismo. Affinché la libertà sia operante è necessario che altre persone rimangano non-libere. [...] Come in passato, essa è destinata a pochi individui scelti» (pp. 74-75).
Come in tutti i suoi libri, Bauman si dedica a smascherare le contraddizioni insite nella nostra società e a svelarne le implicazioni meno evidenti. Certe cose che diamo per scontate sono meno ovvie di quanto sembrerebbe: «a proposito della libertà, c’è molto più da scoprire di quanto a prima vista si pensi» (p. 7).
(«Filosofia.it» online, ISSN 1722-9782, marzo 2009)
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