giovedì 16 aprile 2009

Vivere “moralmente” al tempo della globalizzazione

Ho perso il conto degli amici che mi dicono scherzando (ma poi neanche troppo) che – se voglio leggere ancora “qualcosa di sinistra” oggi – ebbene, allora devo leggere i libri di Tremonti.
Sgombriamo subito il campo da un equivoco: Tremonti “di sinistra” non lo è per niente, da nessun punto di vista. Con il suo richiamo ai valori, alla dialettica tra superfluo e necessario, e allo slogan “un’altra Europa è possibile”, egli non è né socialista, né marxista, né no-global. È semplicemente un economista che vorrebbe riformare il mercato al fine di renderlo maggiormente vantaggioso per l’economia degli europei (a scapito di quella dei cinesi), un ministro che vorrebbe una politica europea più “decisionista”, che ci faccia fare meglio le economie nostre a casa nostra. Nel libro non c’è traccia di internazionalismo, né di equità o emancipazione: le idee di Tremonti potranno anche essere originali, opportune e perfino interessanti, ma certo non di sinistra. Del resto, è lui stesso a spiegarlo: «questo libro non è affatto contro il liberalismo (anzi), è contro il mercatismo, la versione degenerata del liberismo» (p. 19). Dobbiamo proprio rassegnarci all’idea che, come scrive Paolo Ferrero su «L’Indice», «esiste anche una critica di destra alla globalizzazione». Il rischio è che, nel vuoto di idee della odierna sinistra (non solo italiana), l’omologazione al linguaggio, alle convinzioni e alle ispirazioni della destra possa venir presa per “capacità di stare al passo con i tempi”, per “realismo”. Quindi non ci confondiamo: Tremonti non è di sinistra, non lo sono le sue idee, non lo è questo libro. Sarebbe lui il primo a non riconoscersi in questa etichetta, nonostante le recenti dichiarazioni della sua collega Gelmini. Distinguere è importante, perché dove non si distingue, le cose diventano irriconoscibili, e alla fine non si capisce più niente di niente.
Detto questo, vorrei parlare di tutt’altra cosa, e cioè del passaggio del discorso tremontiano che reputo problematico più di ogni altro: «non si può [...] iniziare un nuovo corso partendo dall’economia – dai “valori secondi” –, ma dai “valori primi” di un nuovo ordine morale. Un nuovo ordine morale porta infatti con sé e naturalmente anche progresso economico, ma senza un nuovo ordine morale ci sono solo declino generale e conflitto sociale» (p. 62). Siamo di fronte al solito intoppo: quello in cui, constatata l’immoralità del liberismo economico (se non di diritto, innegabilmente di fatto), si auspica una sua “moralizzazione”, che è un po’ come dire che la dittatura è buona quando è illuminata. Ora, non voglio dire che ciò debba essere per forza falso; voglio dire che la “dittatura illuminata” è un sogno, un miraggio, un’illusione, qualcosa cui è impossibile aggrapparsi seriamente, tanto meno in maniera programmatica. Allo stesso modo, la moralità del capitalismo è una chimera, per un motivo molto semplice, che espongo di seguito. Con ciò nemmeno voglio negare che possa esistere la figura dell’industriale-gentiluomo, come un Agnelli o un Olivetti: ma essi possono al più essere l’eccezione nel mare delle speculazioni finanziarie e dell’evasione fiscale. Queste eccezioni – appartenenti tra l’altro a un’epoca, quella del capitalismo industriale preglobale, che deve considerarsi chiusa – non fanno che confermare la regola.
Ma procediamo con ordine. A riguardo del binomio etica-economia c’è un po’ di confusione. Di questi tempi sui giornali, non soltanto quelli economici, si parla molto di riavvicinare etica ed economia. Quando a dirlo sono economisti o politici, di solito intendono che è necessario riportare ordine in parti del sistema attualmente caotiche, tramite “regole” che rendano il funzionamento complessivo più stabile e prevedibile. Così ad esempio il presidente francese Sarkozy, per il quale è necessaria «una riforma del capitalismo basata su un maggiore rigore morale: regole nuove sulle attività finanziarie e lo stipendio dei manager, un maggiore sviluppo dell’attività produttiva al posto di quella speculativa» (1): qui il “maggiore rigore morale” (che precede i due punti nella frase citata) consiste nelle “nuove regole sulle attività economiche” (che li seguono). In un senso più ristretto, gli stessi economisti parlano di economia “socialmente responsabile” e di “finanza etica” a proposito di imprese attente alla tutela dell’ambiente o impegnate nel settore delle energie pulite, ovvero di istituti finanziari che si rifiutano recisamente di investire in settori quali ad esempio il commercio di armamenti, preferendo magari l’“equo e solidale”. Infine, i moralisti ne parlano nei termini del recupero di valori morali più tradizionali, da “aggiungere” (in forma di interdetti) al comportamento del singolo che opera al livello economico.
In un senso o nell’altro, dunque, la soluzione è sempre la stessa: ulteriori regole (statali), ulteriori leggi (morali). Ma il comportamento degli uomini non diventa più morale “a colpi di legge”: se oggi il cannibalismo è assente dal mondo occidentale non è perché esista una legge che lo vieti, bensì perché la cosa stessa ci ripugna. È che abbiamo maturato ed interiorizzato una mentalità che ce lo mette al bando al di là di ogni proibizione normativa. Gli uomini non diventano “buoni” perché la legge glielo impone: tutt’al più essi, per paura della sanzione, si comportano in certe circostanze come se lo fossero, ma rimanendo intimamente uguali a prima e pronti, alla prima occasione, ad assecondare la loro spontanea propensione, in dispregio di ogni legge da cui non si sentano immediatamente minacciati. Non si apprende l’onestà ripassando ogni sera il Codice Civile, e nemmeno si impara ad avere a cuore il bene comune mandando a memoria il decalogo cristiano.
Non volendo banalizzare né semplificare eccessivamente, il punto è che questo ordine economico produce (e non soltanto asseconda) un tipo d’uomo adatto a viverci: quello che persegue il fine del profitto a tutti i costi, senza scrupoli “morali”, perché in questo ordine non vince anche chi arriva secondo, ma solo chi arriva primo. Questo ordine economico seleziona i più adatti nell’arena della competizione: lì non bisogna essere più raffinati, eruditi o sensibili degli altri, ma solo più armati. Pur cambiando – anche drasticamente – le regole del combattimento (di quella lotta di tutti contro di tutti chiamata concorrenza, diceva Marx), l’arena rimane tale; soprattutto, tali rimangono i gladiatori. L’economia, proprio come viene insegnato, seleziona – tramite i meccanismi del mercato – i migliori. E lo fa in questo senso, appena descritto: l’homo oeconomicus è il risultato della selezione, ed egli agisce moralmente solo se è economicamente conveniente. Non vi può essere alcuna morale perché non vi è alcun posto per nessuna morale che non sia quella del far soldi. Il liberismo economico e la moralità sono termini incompatibili. Si dice: ma questa è una estremizzazione, la via giusta è quella di mezzo, dove l’obiettivo del profitto si accompagna alla preoccupazione per tutto il resto (ambiente, sicurezza dei dipendenti, ecc.), che si concretizza nel rispetto della legge. Bene. Ma allora non sorprendiamoci più per un caso come Thyssen: anche in questa “via di mezzo” non vince chi rispetta meglio le regole, ma chi sa rischiare di più riuscendo a restare più a lungo impunito.
Mi sembra che il senso sia stato centrato dal cardinale di Bologna, Carlo Caffarra, il quale auspica “il superamento del divorzio tra etica ed economia tramite la guarigione dalla malattia mortale dell’individualismo contrattualista” (2). L’uomo di oggi è “malato” di individualismo, e questo sistema economico aggrava quotidianamente la sua malattia. Per curarlo, bisogna rimuovere le cause del malessere: come diceva Aristotele, non si cura l’uomo studiando la medicina, ma applicandola al soggetto malato. L’uomo deve diventare diverso (guarire), non semplicemente comportarsi in modo diverso. Non serve a nulla dire che bisognerebbe essere meno avidi, se il sistema economico continua a premiare il più avido (ovvero il più bravo a sfuggire alla legge); in questo modo, l’avidità non potrà che aumentare e diffondersi. Bisogna entrare in un sistema nuovo, la cui base sia il disprezzo per l’avidità, dove l’uomo ingordo e cieco di fronte al disastro naturale e alla povertà altrui venga considerato per quel che è: un minorato, incapace di vedere al di là del meschino orizzonte del proprio guadagno. Qualcuno per cui provare pena, magari da aiutare; certo non da ammirare.
Per dirla in termini un po’ più filosofici, il problema è di natura antropologica, non economica né normativa. Non basta una riforma del mercato (che introduca limiti all’azione ma ne lasci inalterata la sostanza antropologica, riassumibile nell’hobbesiano adagio homo homini lupus), è necessario riformare l’antropologia alla base dell’economia: rivelare finalmente che l’homo oeconomicus è una astrazione perniciosa e mortificante per l’uomo (che è qualcosa di più di un complesso calcolatore autocosciente o di un “fascio di bisogni da soddisfare”; se perfino l’ex governatore di BankItalia, Antonio Fazio, dice che «l’uomo è molto di più del suo corpo» e che l’economia non è tutto (3) allora possiamo crederci davvero), smetterla di ritenere desiderabili (o addirittura valori in sé) il denaro e la visibilità mediatica, superare quella visione del mondo per la quale gli uomini si dividono in “vincenti” e “perdenti”, e progettare invece l’accoglienza per tutti, a cominciare dagli ultimi, dai più poveri e bisognosi, da quelli attualmente esclusi dal sistema produttivo.
Può darsi che nessun “mercato” sia in grado di fare tanto: idea che può dare le vertigini, perché non è affatto facile rassegnarsi al tramonto del mito del XXI secolo (per dirla con Achille Rossi (4)). Ma accettare l’ipotesi giova a comprendere che nessun “nuovo ordine morale” può garantire il progresso economico e tanto meno può farlo “naturalmente” (come Tremonti crede e afferma nella frase citata, ma non spiega). La pace, la morale, l’ordine, presuppongono – di fatto e di diritto – la rinuncia, la disposizione personale e collettiva a fare a meno di quel superfluo che oggi costa meno del necessario: e, se del caso, la rinuncia a quello stesso necessario. Quando dovrò scegliere tra la riduzione del mio salario e la disoccupazione di qualcun altro, cosa sceglierò? La risposta è più semplice di quanto si pensi, perché stavolta non serve nemmeno un sondaggio d’opinione: nessun homo oeconomicus potrebbe mai scegliere la prima, qualunque matricola della facoltà di economia lo può confermare.
Per il resto, niente da eccepire al ministro circa la critica del pensiero unico, l’analisi del problema ambientale, la condanna dell’uomo “a una dimensione” e del progresso cieco. Tutte cose giuste e sottoscrivibili, affrontate spesso anche da Massimo Fini – pur se non negli stessi termini e soprattutto non con gli stessi esiti. Lo sottolineo per evitare che qualcuno, un domani, possa venire a dirmi: “se vuoi capire Massimo Fini oggi, ebbene, devi leggere Tremonti”. Questa è la mia paura. Che ciò possa non accadere mai, è invece la mia speranza.

(1) «Internazionale», n° 768, 31 ottobre 2008, p. 62.
(2) «Il Sole 24 ore», 16 novembre 2008, p. 10.
(3) «Il Sole 24 ore», 30 ottobre 2008, copertina.
(4) A. ROSSI, Il mito del mercato, Città Aperta, 2002.


(sito internet del mensile «La Voce del Ribelle» diretto da Massimo Fini, marzo 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano