giovedì 16 aprile 2009
L’invisibile armonia: teoria universale della religione o fiducia cosmica nella realtà?
di Raimon Panikkar
(originale inglese apparso in L. SWIDLER (ED.), Toward a Universal Theology of Religion, Orbis Books, Maryknoll, NY 10545 , 19882)
Introduzione
di Paolo Calabrò
“The Invisible Harmony: A Universal Theory of Religion or a Cosmic Confidence in Reality?” è il capitolo terzo del libro a cura di L. SWIDLER, Toward a Universal Theology of Religion, Orbis Books, Maryknoll, NY 10545, 19882), mai tradotto in italiano prima d'ora. Si tratta di un contributo interessante soprattutto perché qui Panikkar affronta il complesso e delicato tema del pluralismo in maniera semplice, esaustiva e ricca di esempi .
Ma c’è dell’altro. Panikkar – che non ha quasi mai utilizzato il termine “imparativo” – ne caratterizza qui l’uso in dialettica con “comparativo”: non ci può essere nessuna vera comparazione, sostiene Panikkar, al “livello ultimo” del dialogo tra le religioni , perché essa presupporrebbe una omogeneità irrintracciabile tra i rispettivi orizzonti di comprensione. Soltanto nell’ambito dello stesso mito si può dare comparazione; ma nel dialogo interreligioso, dove i miti sono reciprocamente irriducibili, non ci può essere altro che filosofia imparativa, disposta ad ampliare il proprio orizzonte di comprensione imparando dall’altro. Una filosofia quindi che è in grado di apprendere perché è disposta ad imparare oltre che ad insegnare: infatti, «apprendere è diventare discepolo e non maestro» .
Una filosofia dalla forte connotazione “personale”, dove il singolo “dialogante” si mette in gioco integralmente, con le sue convinzioni, le sue abitudini, i suoi imperativi, e arriva a toccare il nocciolo ardente di ciò che “non è negoziabile”. Qui si ritrova il dialogo come metodo proprio della filosofia, il pluralismo come base del dialogo, il cosmoteandrismo, sullo sfondo, come cornice metafisica dell’intera impresa. Perché di impresa si tratta per l’uomo, e della più ambiziosa: tenere insieme il mondo, in lotta con gli altri uomini e con gli stessi dèi. Responsabilità e sfida per un essere la cui grandezza non è l’assenza di limiti, ma la capacità di riconoscerli e di toccarne la vetta. Questa filosofia ha un messaggio irrinunciabile da offrire: tale impresa è veramente alla portata dell’uomo, ma nessun uomo può compierla da solo. Abbiamo bisogno gli uni degli altri: per conoscere il Tutto e noi stessi. Nessuna “rivelazione”, né generale né particolare, né scritta né orale, né tradizionale né innovativa, né razionale né estatica, potrà altrimenti condurci alla verità tutta intera: solo l’altro è esperienza di rivelazione .
Ho curato la traduzione del testo dall'inglese (e delle occasionali citazioni dal francese). Le note a piè di pagina (con numeri ordinali) sono mie; le note a fine testo (con numeri cardinali) sono di Panikkar. Ove possibile, ho aggiornato la bibliografia originale, segnalando le traduzioni in lingua italiana. Le traduzioni dal greco di Eraclito e Filolao (ove non diversamente specificato) sono tratte da H. DIELS, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari (a cura di G. Giannantoni). Le traduzioni dal greco di Platone (ove non diversamente specificato) sono tratte da PLATONE, Opere, Bompiani, (a cura di G. Reale).
Questa traduzione appare per gentile concessione di Leonard Swidler: http://jesdialogue.org/ (copyright © 1987 Leonard Swidler. Tutti i diritti riservati).
L’invisibile armonia: teoria universale della religione o fiducia cosmica nella realtà?
di Raimundo Panikkar
Harmonia aphanes phaneres kreitton.
L’armonia nascosta vale più di quella che appare.
ERACLITO, FRAMM. 54
INTRODUZIONE
La mia presentazione sarà succinta, dialettica ed essenziale. Succinta, perché, in quanto basata su studi precedenti, pubblicati e non, mi permetterà di rinviare ad essi la giustificazione delle mie affermazioni1. Dialettica, perché, temo, rappresento una visione minoritaria e posso avanzare la mia proposta solo confrontandola con le tendenze dominanti tra gli esperti del settore. Essenziale, perché essa affronta il problema a partire dalla struttura fondamentale dell’essere umano, dalla prospettiva di una antropologia metafisica, si può dire, e non da un punto di vista sociologico e pragmatico.
In una prima parte esaminerò i motivi che spingono il sapere occidentale moderno verso la ricerca di una teoria universale della religione. In una seconda parte farò la critica della “teoria universale”. In una terza, proverò ad offrire un’alternativa.
Per cominciare, è necessario un commento di carattere generale. Sono pienamente cosciente che non ci sono Est ed Ovest, non c’è un cristianesimo monolitico, né un induismo standard, che le tradizioni umane nonché gli stessi esseri umani sono molto più olistici di quanto la maggior parte delle nostre disquisizioni intellettuali tendano ad assumere. In ognuno di noi si può scorgere un Est e un Ovest, un credente e un non credente, un uomo e una donna e così via. Ogni essere umano è un microcosmo ed ogni cultura umana rappresenta l’umanità intera. Il vero atman di (in) ognuno di noi è brahman. La natura-Buddha giace al fondo di ogni essere. Noi tutti siamo chiamati verso l’alto a condividere la natura divina. Quindi, il piano del mio discorso è teso a rilevare da un lato i venti predominanti, le linee-guida, lo Zeitgeist dominante e dall’altro le più profonde strutture dell’essere umano e della realtà.
Io includo nella nozione di “teoria universale” tutti quegli sforzi vòlti al raggiungimento di una comprensione intellettuale globale, che si chiamino “esperanto ecumenico”, “teologia mondiale”, “teoria del campo unificato” o anche un certo tipo di “religione comparata” e di “ecumenismo”. Ciò che li accomuna è il nobile sforzo di ridurre l’immensa varietà delle esperienze umane ad un singolo linguaggio comune, che possa ben rispettare le differenti forme dialettiche di espressione e di vita, ma che in qualche modo le sussuma tutte e consenta una comprensione e una comunicazione tra esse su di una scala universale. La teoria universale assume che un certo tipo di razionalità sia eredità generale dell’umanità e, in più, che sia l’unico tratto specificamente umano. Essa assume che siamo esseri umani in quanto siamo creature razionali, essendo in definitiva la ragione la nostra prerogativa; così la stessa ragione deve teoricamente essere capace di risolvere tutti i problemi che affliggono la razza umana.
Il nocciolo di questo studio è una sfida a tutto ciò. E tuttavia, l’alternativa non è il solipsismo da un lato o l’irrazionalismo dall’altro, vittime rispettivamente di un individualismo deprimente o di un sentimentalismo superficiale. Ho già detto che qui vengono chiamate in causa tutta un’antropologia e tutta una metafisica. Il sorgere di tali problemi dovrebbe essere materia di studi interculturali, e che siano realmente interculturali e non una collezione di modi di pensare più o meno esotici o sconosciuti da esporre.
Il lettore tenga presente che non farò menzione dei soliti nomi di sociologi, antropologi e filosofi che trattano i problemi tradizionali dell’evoluzionismo, dello strutturalismo, della sincronicità e simili. C’è una natura umana comune? L’evoluzione, o lo strutturalismo, offre una base per comprendere il nostro fenomeno? Sarebbe stato molto istruttivo prendere posizione nelle discussioni contemporanee, ma ho optato per non entrare nei dibattiti eruditi, per due motivi principali. Il primo è che per farlo nella maniera corretta sarebbe necessaria una trattazione quasi indipendente parallela alla presente – e ciò è stato fatto diverse volte2. L’altro e più importante motivo è che la mia prospettiva esige di essere più interculturale e “metafisica” di quanto tali studi di solito siano, motivo per cui essi restano nell’ambito della problematica dell’erudizione occidentale di oggi (e di ieri).
Non sto criticando qui la teoria di un particolare studioso o di una certa corrente; sto sottoponendo ad analisi il senso dell’impresa stessa. Tuttavia, a causa del carattere fortemente olistico del nostro essere, anche le nostre teorie sono più estese di quanto generalmente immaginiamo. Per cui, se alla mia critica si replica mostrandomi che ciò che dico è proprio ciò che qualcun altro voleva dire, in quanto implicito o scontato nella sua intenzione, sarò lieto di aver ottenuto un simile chiarimento.
ANALISI DELL’INTENTO
Continuazione della sindrome occidentale
La spinta verso l’universalizzazione è stata senza dubbio una caratteristica della civiltà occidentale fin dai greci. Una cosa che non sia universale sembra non essere davvero valida. L’ideale di umanità dei greci, il dinamismo interno del cristianesimo, le imprese degli imperi occidentali, l’emancipazione della filosofia dalla teologia finalizzata a slegarsi da una confessione particolare, la definizione di moralità di Kant, la visione cosmologica moderna e così via, sono tutti esempi espliciti di esigenza di universalità. Plus ultra fu il motto della Spagna imperiale, e seguendolo gli spagnoli poterono raggiungere l’America. Governo mondiale, villaggio globale e prospettiva globale, cultura planetaria, rete universale d’informazione, mercato mondiale, il presunto valore universale di tecnologia, democrazia, diritti umani, stati nazionali e così via – tutto mira allo stesso principio: universale significa cattolico, e cattolico significa vero. Ciò che è vero e buono (per noi) è (anche) vero e buono per chiunque. Nessun’altra civiltà umana ha raggiunto l’universalità che ha l’Occidente. La strada era stata spianata sin dai fenici, prefigurata dagli imperi cristiani e resa di fatto possibile geograficamente dal complesso tecnocratico della civiltà attuale.
Effettivamente, questa caratteristica non è assente del tutto in altre civiltà, ma non è così spiccata, sviluppata e potente. La credenza di essere i migliori, tipica anche della cultura cinese, è diversa dalla credenza di essere universali – e quindi universalizzabili, esportabili in ogni tempo e luogo.
Inoltre, questa caratteristica non è del tutto negativa; tuttavia, essa è anche ambivalente e spesso ambigua. Il destino dell’Occidente decolla e precipita con questa spinta fondamentale. Essa è visibile nelle religioni abramiche, non esclusi il marxismo e il liberalismo, così come nell’universale dominio della tecnologia, la moderna cosmologia scientifica e l’universale sistema economico. Il proselitismo, così come i messianismi e gli espansionismi d’ogni tipo, implica anche una convinzione di rappresentare valori universali, la quale impone pertanto ai suoi detentori (carichi del suo fardello) di condividere, comunicare, convincere ed infine conquistare (per il bene dei conquistati). Questa caratteristica è visibile anche nell’aspetto psicologico dell’homo occidentalis ed è chiaramente rilevabile nello spirito più genuino della filosofia occidentale. L’affermazione “una volta per tutte” dell’evento cristiano (cfr. Eb 7,27) e la sua pretesa di universalità sono forse la manifestazione più chiara di questo spirito. Dal punto di vista della storia delle religioni possiamo dire che solo gli dèi occidentali (Yahweh, Allah, Mammona,...), che come la maggior parte delle divinità erano divinità tribali, divennero il Dio universale – e ciò nella misura in cui il cristianesimo rinuncia perfino al nome proprio di Dio – o accettarono quello ebraico. La maggior parte delle religioni ha uno o più nomi propri per Dio o per gli dèi. Il cristianesimo usa il nome comune “Dio”, sebbene il Nuovo Testamento distingua tra Theos e ho Theos. In una parola, la forza dell’Occidente è legata a questa spinta all’universalizzazione. Essa ha prodotto sia risultati gloriosi sia conseguenze nefaste. Ma non è questo che mi interessa adesso. L’unica cosa che mi interessa è rilevare questo tratto specifico.
Per dirla tutta, il Figlio del cielo cinese o il cakravartin indiano, il dharma buddhista o il li confuciano hanno un’intrinseca rivendicazione di validità incondizionata, così come la filosofia di Nagarjuna avanza una pretesa analoga quando critica tutte le possibili visioni del mondo o drstis. Ma nella maggior parte dei casi quella universalità fu più una metafora e un’espressione di potenza e grandezza che un a priori. Si trattò spesso di un senso di superiorità, non di universalità. C’è qualcosa di democratico nella credenza di essere universalizzabili. Quale monarca della storia, per fare un altro esempio, ha rivendicato una giurisdizione universale sul mondo intero, senza neanche l’intenzione della conquista, come fecero i papi del Rinascimento? Quale filosofo comincia la sua riflessione dalla domanda circa le autentiche condizioni di possibilità assoluta, come Kant? Gli eretici sono stati macellati in Asia e in Africa perché giudicati dannosi e da punire, non perché la verità era considerata una e li si voleva salvare, come nell’Inquisizione. In breve, c’è qui qualcosa di speciale nella civiltà occidentale. “Tutto ciò che esiste, esiste quindi perché è uno” (Omne quod est, idcirco est, quia unum est), disse Boezio nel suo pensiero sintetico (PL 64, 83 b) a proposito dell’Occidente. Questo unum non è l’ekam dei Veda ed ancor meno lo ekam evadvitiyam delle Upanishad (CU VI, 2, 1), circondato da asat, non-essere (RV X, 129, 2). Questa sete di universalità fa parte del mito occidentale. Ciò che è particolarmente difficile da mostrare, perché è facile scoprire il mito degli altri, ma non quello in cui si vive.
Una lunga storia (di trenta secoli) in breve: la tendenza autentica della ricerca di una “teoria universale”, anche se espressa con tutto il rispetto e l’apertura possibili, tradisce a mio avviso la stessa forma mentis, il prolungamento della stessa spinta – il desiderio di comprendere, che è anche una forma del desiderio di potere, da cui il bisogno avvertito di avere ogni cosa sotto controllo (intellettuale, in questo caso).
Non ho detto che questa caratteristica sia sbagliata. L’ho soltanto collocata in un particolare contesto e sottoposta a un esame iniziale di sociologia della conoscenza. Non è un caso che questo bisogno di universalizzazione sia sentito proprio in Occidente e soprattutto oggi.
L’oggi dovrebbe essere più chiaro della precedente riflessione generale sul carattere della mentalità occidentale. Probabilmente in nessun’altra epoca della storia umana abbiamo avuto a disposizione tante informazioni sul modo in cui i nostri simili hanno vissuto e vivono. Ne è passato di tempo da quando potevamo ritenere che l’oikumene fosse il mare nostrum, da quando si credeva che le lingue delle razze umane fossero settantadue e le religioni vere fossero solo quelle dei “popoli del libro”, quando potevamo parlare di cristianesimo da una parte e di tutte le altre religioni dall’altra. Oggi siamo sommersi da una valanga di dati. Come orientarsi in questa giungla di informazioni? Il bisogno di intelligibilità diviene imperativo. Non possiamo vivere come se fossimo autosufficienti, nel nostro cantuccio. “Lo Spirito del Signore riempie l’universo” (Spiritus Domini replevit orbem terrarum; Sap 1,7), cantava la liturgia cristiana a Pentecoste. Oggi le onde della radio e della televisione riempiono l’universo.
Sto dicendo che nell’odierna situazione mondiale non possiamo avere l’innocenza delle tribù amerindie, assumendo che gli altri adorino più o meno lo stesso Grande Spirito e siano governati da sentimenti cosmici analoghi. Abbiamo bisogno di conoscenza, di conoscenza dell’altro, per la nostra sopravvivenza e per la nostra identità. La spinta verso una teoria universale è ben comprensibile. Si aggiunga a ciò il desiderio di comprendere l’altro (e meglio se stessi) senza commettere gli errori causati in passato dall’intolleranza e dal fanatismo, e sembra che ci sia solo da rallegrarsi. L’intenzione è più che giustificata; dubito però che costituisca un rimedio adeguato.
Poiché generalmente impariamo più dagli altri ambiti, i cui oggetti sono per noi troppo pericolosi, potrei citare soltanto come esempio l’ideale delle scienze fisiche. Fu il sogno – ed il dramma – di Einstein, il progetto di “teoria del campo unificato” com’egli la chiamava. In essa, l’insieme delle leggi che governano la gravitazione e l’altro insieme di leggi che governano l’elettricità sarebbero dovuti ricadere all’interno della stessa formula matematica. Faraday aveva avuto successo nel “convertire il magnetismo in elettricità”, unificando così quei due gruppi di fenomeni. Einstein in seguito unificò la gravitazione, il tempo e lo spazio. Non c’è da meravigliarsi che il passo successivo sembrasse essere l’unificazione totale. Tuttavia, stiamo ancora aspettando la formula. Forse nemmeno in matematica e in fisica può essere tutto ridotto all’unità (si pensi a Gödel e Heisenberg). Dovremmo ascoltare questo monito.
In breve, il mio sospetto è che questo dirigersi verso una “teoria universale”, sia esso in fisica, in religione o in politica, appartenga alla medesima spinta occidentale. E ripeto che questo tratto, nonostante i suoi frutti spesso amari e gli odierni rischi che ci minacciano, non è del tutto negativo, e che ad ogni modo con esso dobbiamo fare i conti, essendo probabilmente la più potente delle forze presenti oggi nel mondo. Ma insisto anche nel dire che questa spinta non è universale, per cui non costituisce un metodo adeguato a risolvere i problemi umani, sia perché non è veramente una teoria universale (la razionalità può essere di diversi tipi), sia perché, soprattutto, nessuna teoria è universale (la razionalità non definisce esaustivamente l’essere umano). In più, il fenomeno della religione di certo non è qualcosa di esclusivamente teorico. Ma forse è il caso di ricordare la mia promessa di essere succinto, dialettico ed essenziale.
La ricerca inevitabile
La cosa importante per noi non è stabilire se la ricerca cui Einstein ha dedicato la sua vita fallirà o meno, né se una teologia universale della religione convince o no. La cosa importante è realizzare che, a quanto pare, la cultura occidentale non ha altro modo di raggiungere la pace della mente e del cuore (chiamata, in maniera più accademica, intelligibilità), che riducendo ogni cosa ad un singolo schema con il requisito della validità universale.
Potrei dirlo con una battuta, descrivendo la tragedia dell’ubriaco di ritorno alle prime luci dell’alba il quale, avendo perduto le chiavi di casa, si attarda a cercarle nei pressi di un lampione ancora acceso; alla domanda del poliziotto che gli chiede se è sicuro di averle perdute proprio lì, l’ubriaco risponde: “No, ma qui c’è più luce”. Noi cerchiamo al di sotto dell’unica luce che abbiamo.
Ora, tutto ciò che mi propongo qui è mostrare che esistono altri lampioni nella città dell’umanità e che la lanterna occidentale non è l’unica che abbiamo. Ovviamente, si risponde che non è questione di lanterna occidentale, ma dell’umana lanterna della ragione, l’unica fonte di intelligibilità, e che – a meno che non si vogliano interrompere tutti i rapporti umani, il commercio, la comunicazione – dobbiamo accettare quella singola luce. Spingendo l’esempio un po’ più avanti, vorrei suggerire che per trovare la chiave della casa della saggezza dovremmo fare più affidamento sulla luce del giorno, e che solo quella luce sovra-umana del sole può essere lanterna comune per l’intero universo, e non i lampioni artificiali, che si tratti del gas della ragione, dell’elettricità dell’intuizione, dei neo-gas del sentimento o quant’altro. Ebbene, che fare poi se la chiave la smarriamo di notte? Ma non voglio avanzare qui una proposta teologica.
Senza identificare Cartesio con il nostro ubriaco, posso richiamare la fallacia logica. Per il padre della filosofia occidentale moderna, tutto ciò che vedo in maniera chiara e distinta (si ricordi, sotto alla lanterna) – ovvero, con piena evidenza – deve essere vero. Posso concedere qui, per amore della discussione, che ciò deve essere la verità. Ma da questo non segue che la verità sia solo ciò che vedo in maniera chiara e distinta. L’evidenza può essere il nostro criterio di verità ma, in primo luogo, non posso assumere a priori che ciò che io vedo in maniera chiara e distinta sia visibile allo stesso modo anche dagli altri. In secondo luogo, la verità può essere più ampia, più profonda o anche altrove rispetto a dove io (o noi) la vedo in maniera chiara e distinta. Qui dobbiamo ricordare il paradigma della filosofia occidentale presente fin dagli inizi: “Di tutte le cose è misura l’uomo; di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono” (Panton chrematon metron anthropon, einai. Ton men onton hos esti, ton de ne onton hos ouk estin), come disse Protagora (riportato da Platone, Teeteto, 151e-152a).
Questo non è necessariamente semplice umanismo, come spesso si dice. Può anche essere teologia tradizionale, perché anche se Dio parla, dovrà utilizzare un linguaggio umano e dipenderà in ultima istanza dalla nostra comprensione delle parole divine. Il mio disaccordo qui non è con l’anthropos, con l’uomo e nemmeno con l’antropocentrismo – sebbene lo contesti; il mio disaccordo è con il metron, con la tendenza a misurare ogni cosa e ad estrapolare, spinti dal desiderio di conoscere ogni cosa, dando per scontato che ogni cosa sia conoscibile. In termini ontologici: non è necessario che il pensiero esaurisca l’Essere. Oggi, secondo le premesse dell’Occidente, la spinta verso una “teoria universale” viene salutata con favore ai fini del mettere ordine fra le tante visioni del mondo. In questa cornice potrebbe essere il miglior modo di esprimerlo. Ma la realtà è più ricca. La “divina oscurità” di Gregorio di Nissa non ha avuto seguito in Occidente. Essa divenne la “notte oscura dell’anima” in san Giovanni della Croce ed è svanita nell’inconscio della psicologia moderna, dopo l’illuminazione di Meister Eckhart.
Questo è il punto. Ammesso che una ipotetica teologia universale della religione fosse possibile, sarebbe un contributo molto positivo alla comprensione del fenomeno della religione solo per coloro che vivono all’interno del processo culturale nel quale tutte queste parole hanno un senso, ovvero per quelli che in un modo o nell’altro si rifanno al mito della storia, che accettano l’intellectus agens (nous poietikos) di Aristotele e dei filosofi arabi, l’intuizione cartesiana, la rivoluzione critica kantiana, l’analisi marxista o un monoteismo assoluto. Si tratta di un club notevole e potente, ma non è per tutti. Effettivamente, nessuno ha oggi in mente di circoncidere gli altri ai propri modi di pensare, al fine di raggiungere l’universalità. In breve, lo sforzo teso a una teoria universale è un modo di esprimere la molteplicità dell’esperienza religiosa dell’uomo, soltanto uno dei modi per farlo. Esso ha un valore formale, esprime il genio dell’Occidente. In ogni caso, non vogliamo più colonialismi intellettuali.
Non vorrei venire male interpretato. Lo sforzo teso a una teoria universale è un’impresa nobile, nonché proficua. Molte incomprensioni vengono superate quando si ricerca una lingua comune, molte oscurità vengono dissolte. La collaborazione diviene possibile e le religioni vengono purificate di tanti orpelli, fanatismi, chiusure mentali. Sarebbe totalmente sbagliato interpretare la mia critica come non costruttiva, come se non avesse di mira gli stessi obiettivi e non andasse nella stessa direzione della “comprensione”, della tolleranza e della stima reciproche. Potrebbe sembrare che anch’io sia in cerca di un mito universale – per quanto, non sarebbe la stessa cosa. Il mito emerge e non può essere escogitato a bella posta; il mito è polisemico ed irriducibile a una interpretazione. Il mito non sostiene nessuna teoria particolare.
Ciò cui sono in ultima istanza contrario è il dominio totale del logos e la subordinazione dello Spirito – per dirla nei termini del cristianesimo trinitario – ovvero sono contro ogni forma di monismo – per dirla in termini filosofici. E benché contrario a tutto ciò, ripeto, non ignoro la funzione e il potere del logos, questo “compagno di viaggio” dell’intera realtà, coestensivo con essa, ma non esaustivamente identificabile con essa.
Mi si lasci ricapitolare i miei timori prima di intraprendere una critica più positiva. La ricerca di una “teoria universale” promuove genuinamente il dialogo, ma corre il grande rischio di imporre il proprio linguaggio o la cornice al cui interno il dia-logos deve aver luogo. Essa rivendica il proprio essere una lingua universalis, che diventa riduzionismo, a dire il meno. In secondo luogo, essa assume che la religione – o, in un senso più ampio, le tradizioni umane – siano, se non riducibili, almeno traducibili in logos (e probabilmente un certo tipo di logos), ciò che conferisce al logos una supremazia sullo Spirito. Ma perché tutto dovrebbe essere messo in parole? Perché l’accettazione senza comprensione – che io leggo nel simbolo cristiano di Maria (Lc 2,19-51) – non è anch’esso un atteggiamento umano ugualmente possibile?
CRITICA
Il problema del pluralismo
Ho l’impressione che la maggior parte di coloro che parlano di pluralismo, associandovi un significato positivo, non sia consapevole abbastanza delle conseguenze di vasta portata che il pluralismo implica: la detronizzazione della ragione e l’abbandono del paradigma monoteistico. È come quando si parla con leggiadria di tolleranza degli altri, senza considerare che il problema reale della tolleranza inizia con il perché e il come tollerare l’intollerante. “La tolleranza che si ha è direttamente proporzionale al mito che si vive ed inversamente proporzionale all’ideologia che si segue”3. Questa potrebbe essere la Legge della Tolleranza.
Il pluralismo nel suo senso ultimo non è la tolleranza di una diversità di sistemi sotto un più ampio ombrello; esso non dà luogo a nessuna sovrastruttura. Il pluralismo non è un supersistema: chi o quali princìpi potrebbero infatti gestirlo? Il problema del pluralismo sorge quando ci troviamo a confrontarci con visioni del mondo reciprocamente inconciliabili o con sistemi ultimi di pensiero e di vita. Il pluralismo ha a che fare con posizioni umane ultime, irriducibili, prive di ponti di collegamento. Se due visioni danno luogo a una sintesi, non possiamo parlare di pluralismo. Noi parliamo allora di due differenti, complementari – sebbene apparentemente opposti – atteggiamenti, credenze o quant’altro. Non prendiamo sul serio l’esigenza di ultimità delle religioni, delle filosofie, delle teologie e delle posizioni umane ultime se operiamo per un supersistema pluralistico. In quel caso, ovviamente, tutti noi vorremmo essere pluralisti e non così mentalmente chiusi come i musulmani, i cattolici, i marxisti o chiunque pensi ancora che le proprie analisi e i propri modi di vedere siano ultimi – almeno nel proprio orizzonte. È facile essere pluralisti se gli altri abbandonano la loro rivendicazione di assolutezza, primato, universalità e simili: “Noi pluralisti abbiamo assegnato a ciascun sistema la sua nicchia; noi siamo quindi davvero universali”. Questo, sostengo io, non è pluralismo. Questo è un altro sistema, forse migliore, ma che rende superfluo il pluralismo. Abbiamo pluralismo solo quando ci confrontiamo con sistemi ultimi, che si contraddicono e si escludono mutuamente. Non possiamo, per definizione, oltrepassare logicamente una situazione pluralistica senza infrangere il principio di non contraddizione e senza negare il nostro insieme di codici: intellettuali, morali, estetici, ecc.
In altre parole, assumere che gli hindu o i cattolici sono così ottusi, ciechi o fanatici da non capire che anche altri hanno le stesse (o simili) rivendicazioni ultime, vuol dire commettere un’ingiustizia nei confronti dell’autocomprensione dei migliori intendimenti di queste religioni. Esse sanno bene che la rivendicazione di assolutezza, per esempio, è uno scandalo per il pensiero umano e che essa non implica mancanza di rispetto verso l’altro o diretta condanna di altre visioni. Ci sono al mondo anche oggi posizioni assolutistiche equilibrate e ben congegnate che sono mutuamente inconciliabili. E quando si ha a che fare con tradizioni di vecchia data, non si può essere ragionevolmente soddisfatti dell’atteggiamento prolettico di una vaga “speranza” – vorrei piuttosto dire “aspettativa” – che nel futuro i nostri dissensi svaniranno o troveranno soluzione: essi sono durati troppo a lungo perché possiamo credere che un bel giorno i vaishnaviti riconosceranno infine che gli shivaiti hanno ragione. Questa pia speranza (lo dico senza ironia ) è un atteggiamento molto vigoroso, finché dura.
L’ecumenismo cristiano offre un buon esempio: ciò che una volta era considerato impossibile diviene – un paio di decenni dopo – un fatto. Ma questo modello non può essere estrapolato così facilmente, perché non tutti condividono necessariamente la convinzione che la storia sia il luogo della realtà o abbia un punto centrale di riferimento, come Cristo. In altre parole, uno studio interdisciplinare non è ancora interculturale.
C’è di più. Un sistema pluralista in quanto tale non può essere compreso. Il pluralismo è solo un concetto formale. Certe persone sensibili non riescono a comprendere come sulla terra ci possano essere così tanti uomini che ritengono che tutto sia materia, o che ci sia Dio, o che le razze inferiori o i meno intelligenti non dovrebbero essere al servizio di quelli superiori, e così via, perché dette persone sono convinte fermamente del contrario. Tuttavia veniamo costretti dalle circostanze a coesistere con tali sistemi o visioni del mondo. Non è possibile costruire nessun sistema superiore che inglobi entrambi. Che Dio esista o non esista, che l’individuo abbia o meno un valore ultimo, che il cosmo sia un organismo vivente o non lo sia. Nonostante tutto il desiderio e lo sforzo di capire, siamo in disaccordo gli uni con gli altri; non riusciamo nemmeno a capire come sia possibile sostenere ragionevolmente un’opinione contraria alla nostra. Possiamo avere la nostra interpretazione personale ed interpretare ad esempio dati problemi come falsi problemi. Rimane nondimeno un fatto che gli altri possano non condividere la nostra credenza in una coincidentia oppositorum.
In breve, ci sono alcuni atteggiamenti umani fondamentali alla base delle diverse tradizioni umane che sono mutuamente inconciliabili. Alcuni sono animisti ed altri scienziati positivisti: le due visioni del mondo non possono essere entrambe vere. O sì? La questione del pluralismo appartiene a questo livello ultimo; non dovremmo prenderla alla leggera. È permesso torturare un individuo, il quale altrimenti non parlerebbe, al fine di salvare cinquantamila persone che stanno per saltare in aria nelle prossime ore? Non possiamo dire sì o no, né rifiutarci di rispondere, perché non rispondere equivale qui a dare comunque una risposta.
Questo esempio contiene la situazione del mondo odierno, racchiusa come in una “capsula temporale” . La mia ipotesi può essere giusta o sbagliata, ma non sono certo fuori strada. Tale è la serietà del problema del pluralismo. Non possiamo rinviare a un escatologico lieto fine la soluzione di tutte le antinomie, né possiamo affidarci all’ultima scoperta scientifica o teologica di qualche guru che ci dica cosa fare. Per quell’epoca, non i cinquantamila del mio esempio ma milioni di esseri umani saranno già morti dalla fame, o a causa di guerre fratricide.
Il problema del pluralismo è di primaria importanza e ha molte sfaccettature. Una di esse è quella del bene e del male. Mi concentrerò qui sulla questione della verità. Cosa le accade di fronte a così tante, disparate e incompatibili, convinzioni ultime? Supponiamo di aver esaurito tutte le clausole di salvaguardia a nostra disposizione. Sappiamo che il contesto è essenziale, che prospettive diverse conducono a differenti visioni, che temperamento, cultura e simili, sono testimoni di diversità stupefacenti. Nella misura in cui i canali del dialogo sono aperti, nella misura in cui l’altro non tira le conclusioni ultime, non c’è bisogno di parlare di pluralismo; ci si batte ancora per trovare una verità comune. Si parla perciò di dialogo, tolleranza, differenza d’opinioni e anche di competizione tra visioni del mondo all’interno dell’arena umana. Si riconosce un legittimo multiprospettivismo. La questione del pluralismo compare solo quando tutte le porte sono state chiuse, quando si ritorna presso se stessi e si deve decidere di écraser l’infâme , o di permettere a se stessi di venir invasi dal male, nella forma della tolleranza dell’errore e del male ultimi o della lotta ad essi, o perfino soccombendovi.
Se la storia dell’umanità è una successione di guerre, e se la guerra appare oggi così terribile, la nostra istanza del pluralismo non è estranea a questa difficile situazione in cui l’uomo si trova. Qual è il posto delle filosofie ispiratrici degli Hitler e degli Stalin in una “visione del mondo pluralista”? Non c’è “visione del mondo pluralistica”; ci sono semplicemente visioni del mondo incompatibili.
Uno dei presupposti della teoria universale è che tutti i problemi siano risolvibili in sede teoretica. Sono completamente a favore dello sforzo di cercare di risolvere i problemi e con pazienza, buona volontà e intelligenza molto può essere ottenuto. Bisogna provare e riprovare, instancabilmente. Ma bisogna riconoscere due cose. Una è che l’interlocutore può interrompere le relazioni, fermare il dialogo, divenire pericoloso, obbligarmi a prendere delle decisioni e ciò non necessariamente a causa di qualche progetto malvagio, bensì a causa della logica interna del sistema. Non tutti quelli che intrapresero delle guerre erano criminali, non tutti quelli che predicarono crociate erano corrotti, non tutti quelli che credevano nelle inquisizioni e nelle schiavitù di vario tipo erano subumani – sebbene al giorno d’oggi sia impossibile giustificare tali atti o atteggiamenti, che verrebbero condannati come delle totali aberrazioni.
Ora, non c’è alcuna garanzia che tutti i problemi umani siano (debbano essere) risolvibili teoreticamente. Probabilmente non è così, neanche in matematica, lasciata da parte nelle complesse situazioni esistenziali in cui le contraddittorie visioni umane sono radicate. L’universo potrebbe non avere la coerenza logica supposta da Laplace o dalla credenza in una Deità monoteistica per la quale nulla è inintelligibile. Questi sono già presupposti religiosi non condivisi da tutte le tradizioni umane. Quelli che pensano diversamente da noi dovrebbero venir esclusi da una teoria universale?
Una seconda cosa di cui dovremmo prendere consapevolezza è di tutt’altra natura; si tratta del presupposto non discusso – preso per buono, “pre-supposto” – che la verità è unica piuttosto che pluralistica.
Il pluralismo della verità è un’ipotesi molto più seria e perturbante dell’ovvio riconoscimento di prospettivismo e relatività. Ammettere che la verità è relativa alla prospettiva non dovrebbe dar luogo ad alcuna difficoltà, sebbene a questo livello ultimo il problema emerga sottoforma di questione di quale sia la prospettiva in grado di offrire la migliore visione delle cose. Questa ovviamente non può essere, di nuovo, un’altra prospettiva, senza che si dia un regressus ad infinitum.
Anche la relatività della verità, una volta distinta dal relativismo, non dovrebbe essere difficile da accettare. Il relativismo distrugge se stesso quando afferma che tutto è relativo e includendo quindi se stesso in questa affermazione. D’altro canto la relatività sostiene che ogni affermazione umana, e dunque ogni verità, è relativa ai propri parametri e che non può esserci nessuna verità ab-soluta, perché la verità è essenzialmente relazionale. Il secondo caso è il rovescio del primo. Il relativismo distrugge se stesso nel momento in cui lo si afferma. La relatività, invece, è presupposta anche nell’atto di negarla. Ogni verità è relativa di fatto a un intelletto; il concetto di verità assoluta è necessariamente relativo a un intelletto infinito.
Il pluralismo della verità fa un passo in più: esso sostiene che la verità stessa è pluralistica, quindi né una né molte. Pluralismo non vuol dire pluralità. Affermare che la verità stessa è pluralistica vuol dire affermare che non c’è una verità onnicomprensiva o assoluta.
Il pluralismo della verità è basato su due assunti fondamentali: (1) il primo è antropologico; (2) il secondo teologico – o filosofico. Io preferisco restare vicino a tutte quelle tradizioni in cui filosofia e teologia non vengono separate.
Il primo assunto è il riconoscimento che ogni persona è fonte di comprensione. Persona qui significa non solo ogni soggetto di diritti, in quanto persona fisica o giuridica, ma anche unità collettive, soprattutto culture in quanto entità storiche.
Non sto necessariamente riesumando la teoria della conoscenza agostiniana dell’illuminazione, o aderendo a un’epistemologia di tipo soggetto/oggetto. Sto solo dicendo che ogni persona è fonte di autocomprensione. Ciò che una persona è deve prendere in considerazione l’auto-descrizione e definizione della persona in questione. Io sono un’altra persona e non ho alcun diritto di imporre dall’alto i miei parametri e le mie categorie di comprensione ad altri. O, piuttosto, se vogliamo, la comprensione che impongo sarebbe la mia comprensione degli altri, non la comprensione degli altri così come essi comprendono se stessi – ovvero, come la comprensione della loro autocomprensione. Quando gli hindu o i bantu dicono qualcosa che ci sembra assurdo, non dobbiamo formulare nessun giudizio diverso da quello per cui questo qualcosa ci sembra inaccettabile per tale e talaltra ragione, apparentemente non condivisa – o non riconosciuta – dall’altro. In ogni caso, non possiamo ridurre tutto ad affermazioni oggettive. Abbiamo a che fare con convinzioni personali, non con eventi oggettivabili.
Questo fatto quasi ovvio è stato spesso offuscato dall’influenza delle scienze naturali, che hanno a che fare principalmente con fenomeni oggettivabili e ancor più precisamente con entità misurabili. C’è ad esempio una relativa universalità, almeno nella matematica elementare, per la quale la formula 2 + 3 = 5 può sembrare una verità universale indipendente da qualunque fonte di comprensione ulteriore rispetto all’intelligibilità oggettiva della proposizione. Senza discutere la natura della matematica, sarà sufficiente affermare che non è questo il caso quando si ha a che fare con gli affari umani. Ciò avviene anche nella matematica applicata. Se 3 + 2 = 5, chiunque dovrebbe acconsentire a scambiare tre canoe più due donne con cinque lire sterline. Se a ciò si replica che le quantità devono essere omogenee, dovremmo essere portati a pensare che chiunque acconsentirebbe a scambiare due acri di terra più tre case con altri due acri ed altre tre case (dello stesso prezzo) situati al di fuori della terra della tribù – e meravigliarci dell’agitazione di quei “selvaggi” di Papua Nuova Guinea, quando si cerca di spostarli altrove, o dell’ostinazione di Israeliani e Palestinesi nel voler rimanere a tutti i costi dove sono. Il fatto è che né la terra né la casa sono entità misurabili. Ciascun essere è unico; cioè, incommensurabile.
Pur non volendo concedere tutto ciò (sebbene tutto ciò non sia per niente fuori luogo), dovremmo essere tranquillamente d’accordo sul fatto che l’autocomprensione di una determinata cultura è in un certo senso qualcosa di ultimo, da prendere come tale senza deviazioni riduzionistiche verso i nostri modi di giudicare le cose. Questa è un’affermazione epistemologica. Non sto in alcun modo approvando i sacrifici umani fatti dagli Aztechi, né sto dicendo che certi paesi oggi facciano bene a commerciare armi o a costruire arsenali atomici. Sto dicendo che, se non riusciamo a penetrare nella logica interna di una persona e non consideriamo quella persona come fonte di autocomprensione, non capiremo mai quella persona e ciò rimarrà sempre una fonte di irritazione all’interno della relazione tra noi.
Se ciascun essere umano, in quanto umano, è dotato di autocomprensione, anche ciascuna cultura lo è, poiché possiede una specifica visione della realtà, un certo mito , cioè l’orizzonte ogni entro cui le cose e gli eventi sono compresi. Ora, privilegiare la nostra comprensione della realtà e ridurre tutte le altre prospettive alla nostra, pur accettando i dati degli altri, non sembra un metodo adeguato a trattare ciò che gli uomini pensano di se stessi e dell’universo, a meno che non si riduca l’essere umano a un insieme di dati rilevabili scientificamente.
Se ciascuna persona è fonte di autocomprensione, se gli uomini sono esseri dotati di autocomprensione, non saremo allora in grado di comprendere gli uomini se non avremo condiviso con essi la loro stessa autocomprensione. In questo senso, un’antropologia oggettiva non ha senso. Gli esseri umani non sono oggetti, ma soggetti. Sarebbe metodologicamente sbagliato trattare gli uomini come oggetti scientifici.
Le religioni hanno a che fare principalmente con l’autocomprensione collettiva ultima di un gruppo umano. La verità della religione può essere valutata solo all’interno del mito unificante che rende possibile l’autocomprensione. Non c’è verità, al di là di questi limiti, se non quella comune individuata nell’ambito dello sforzo comune. Ma non dovremmo proiettare le verità di una religione su di uno schermo oggettivo della verità in sé. Anche se una tale verità oggettiva esistesse, non potremmo applicare i suoi canoni al fine di comprendere l’autocomprensione di una tradizione che non li riconosce, senza per ciò stesso distorcere la questione. Possiamo eventualmente condannare una religione come aberrazione umana, ma sempre giudicando con i nostri standard.
Se il primo assunto è antropologico, il secondo è teologico o, piuttosto, metafisico. Esso contesta una delle credenze più diffuse, in Occidente come in Oriente: ovvero, che la Realtà sia totalmente intelligibile, come nel caso del noesis noeseos di Aristotele, del svayamprakasha dei vedantini, dell’onnisciente Dio dei cristiani (che conosce perfettamente se stesso), della riflessione totale di molti filosofi spiritualisti. Esso contesta la credenza ultima di ogni monismo idealistico: che ci sia un Essere o una Realtà che ricomprende tutto ciò che c’è e che questa Realtà sia pura coscienza, che ha intelligenza assoluta di sé, poiché tutto è trasparente alla luce dell’intelletto, tutto è pervaso di cit, nous, pensiero. Non sto contestando che questa dimensione del reale, logos, nous, cit, o in qualunque altro modo vogliamo chiamarla, sia una “compagna di viaggio” della realtà, ovvero che sia coestensiva con l’Essere; sto solo contestando che l’Essere sia totalmente riducibile ad essa. Ciò che dico è che la Realtà ha altre dimensioni – Materia, ad esempio, o Spirito – che non possono venir ridotte a logos, parola, vac, nous, pensiero, coscienza, cit. La Coscienza è l’Essere, ma non vi è motivo per cui l’Essere debba essere solo Coscienza.
Una delle implicazioni filosofiche di questa visione è che non c’è nessun essere assolutamente identico a se stesso. L’auto-identità implicherebbe una riflessione assoluta (totale, un a identico ad a). Ciascun essere, non escluso un possibile Essere Supremo, presenta un residuo opaco, in certo modo, un aspetto misterioso che resiste alla trasparenza. Questo è precisamente il luogo della libertà – e la base del pluralismo. Il pensiero, o l’intelligenza, copre la totalità dell’Essere solo dall’esterno, per così dire. L’Essere ha un fondo non accessibile, un dinamismo, un lato interno non illuminato dall’autoconoscenza, riflessione e simili. La spontaneità si trova in questo angolo di ciascun essere – il suo mistero intimo. Esso è impensato , non premeditato, libero, anche dalle strutture del pensiero. Il mistero della realtà non può essere equiparato alla natura della coscienza. C’“è” anche sat (essere) e ananda (gioia), il Padre e lo Spirito. Essi possono essere correlativi o anche coestensivi con la coscienza, probabilmente perché non possiamo parlare (pensare) dell’uno senza l’altro, ma certamente essi non possono venir messi insieme in ultima istanza come una singola “cosa”. Questa è una delle conseguenze di ciò che chiamo l’intuizione cosmoteandrica o teantropocosmica . Da tutto ciò segue che non c’è nessuna verità assoluta, non solo perché noi mortali non possiamo accedere a essa, ma perché della realtà non si può dire che abbia una completa intelligenza di sé – a meno che non identifichiamo a priori la Realtà con la Coscienza. L’Assoluto sta nel Relativo. Una certa cosa può essere assolutamente vera, ma questa non è Verità assoluta. La verità è sempre una relazione, e uno dei poli della relazione è l’intelletto che comprende il genere (intelligibile, coerente e così via).
Anche ipotizzando un Intelletto perfetto o divino, esso potrebbe conoscere solo ciò che è intelligibile. Asserire che esso può conoscere Tutto equivale ad affermare in maniera gratuita che Tutto è intelligibile, che l’Essere è intelligibile – in altre parole, che l’Essere è la Coscienza.
In questo schema, conoscere è diventare il conosciuto. Nel processo di una reale comprensione l’identità tra il soggetto e l’oggetto è totale. La filosofia vedantica e quella Scolastica cristiana, ad esempio, difendono il significato ontologico dell’atto epistemico. In ultima istanza l’Essere viene ridotto alla Coscienza. Il principio (epistemologico) di non contraddizione diviene qui il principio ontico d’identità. Solo una cosa non contraddittoria è identica a se stessa. Essa è se stessa (identità) poiché è non contraddittoria. Il Pensiero, governato dal principio di non contraddizione, equivale in ultima istanza all’Essere, che è governato dal principio d’identità. Pensiero ed Essere formano il paradigma ultimo.
L’applicazione al nostro caso è facile da individuare. Può esserci una teoria universale della religione, o di qualunque cosa, solo con l’assunto che la Teoria copra la Realtà, che il Pensiero possa (teoricamente, in linea di principio) esaurire l’Essere, possa conoscere l’Essere senza alcun residuo (sconosciuto). In una parola l’Essere è intelligibile (quoad se). Questo è il presupposto ultimo di ogni teoria universale. Ma è proprio questo presupposto ultimo ad essere in questione qui. L’affermazione che la Coscienza è l’Essere è un postulato di intelligibilità, non dell’Essere. La verità è il risultato di qualche identificazione tra la Coscienza e l’Essere. Ma l’Essere può trascendere la sua identificazione con la Coscienza.
Inoltre, de facto, il polo attuale di tutte le cose che diciamo sulla verità non è un intelletto perfetto o divino ma la coscienza umana, individuale o collettiva, collocata nello spazio, nel tempo, nella materia, nella cultura e via discorrendo. Dobbiamo prendere molto sul serio la nostra contingenza; la nostra “grandezza” giace proprio nella consapevolezza dei nostri limiti. Tutto ciò che tocchiamo, pensiamo, diciamo – comprese tutte le nostre idee circa ogni Deità Suprema – è permeato dalla contingenza del nostro essere. Non sto escludendo l’esistenza possibile della coscienza suprema di un’anima realizzata, jivanmukta; sto dicendo che anche quel linguaggio è relativo e polisemico. Nel momento in cui “entriamo in situazione”, tutto si colora della nostra creaturalità, umanità, o in qualunque modo vogliamo chiamarla.
Ricapitolando, il carattere pluralistico della verità non implica che ci siano molte verità. “Molte verità” è una contraddizione in termini – se ammettiamo la possibilità di più risposte vere e reciprocamente incompatibili a una certa domanda – ovvero è uno spostamento del problema verso una meta-verità che costituirebbe la verità concettuale delle diverse verità, allo stesso modo in cui il concetto di sardina ci consente di riconoscere le diverse sardine. Le verità sarebbero allora esemplari della meta-verità e il problema si ripresenterebbe da capo con la meta-verità.
Il pluralismo della verità significa fondamentalmente due cose. Primo, che la verità non può venir astratta dalla sua relazione con una particolare mente inserita in un particolare contesto. La frase “C’è del pane su questa tavola” non può essere esaminata al di fuori della prospettiva di colui che la pronuncia, sebbene la frase “La città di Madras sta su questo tavolo” non possa dirsi vera in senso letterale, per mancanza di coerenza interna. Non possiamo fare astrazione da ogni contesto e proclamare l’unicità della realtà. Dobbiamo riconoscere il ruolo della prospettiva e del contesto. La verità è relazione, ed è estranea alla quantificazione.
Secondo, e più importante, il carattere pluralistico della verità mostra che la nozione di verità non è identica, ad esempio, alla nozione di bontà. In ultima istanza, la Verità e la Bontà possono unirsi, ma anche allora esse continuano a essere differenti. La storia ci ha mostrato quanto male (non-bontà) sia stato perpetrato in nome della Verità. In questo senso, la sola verità non basta – ovvero, non esaurisce la funzione che ci si aspetterebbe da essa. Essa richiede esplicitamente in aggiunta la bontà. La verità è pluralistica: quindi la verità, la sola verità, la verità disincarnata, non può essere un assoluto; in ultima istanza, essa non è vera. Ha bisogno di ulteriori elementi, al suo stesso livello, per così dire. La bontà ne è un tipico esempio. Verità e bontà non sono la stessa cosa, tuttavia la verità senza la bontà è incompleta, non è verità. Non esaminerò qui se una delle debolezze della filosofia occidentale dominante sia che essa abbia voluto essere meramente sophia (convertita in episteme), riducendo la philia al desiderio (della saggezza), dimenticando che essa deve al contempo essere (saggezza dell’) amore.
Comunque sia, il carattere pluralistico della verità denuncia il monismo del pensiero e rivela l’aspetto esistenziale della verità. Ciascuna verità è una, certamente, ma l’idea di una verità universale in generale è soltanto un’estrapolazione della nostra mente.
Ciò non significa che in un particolare periodo storico o nell’ambito di una data cultura – sarebbe meglio dire: nell’ambito di un certo mito vissuto – non possano esserci standard unanimemente accettati e, in questo senso, delle verità relativamente universali.
Tali verità esistono, perché esse sono viste come tali da quel particolare gruppo di uomini. L’abolizione della schiavitù come istituzione, giusto a titolo di esempio, potrebbe oggi riscuotere un consenso generale, al punto che anche chi la pratica lo fa con la coscienza sporca. Anche Dio fu per lungo tempo e in gran parte del mondo una simile verità riconosciuta, un simile mito; ora non più. L’anticapitalismo e la democrazia potrebbero essere invece esempi di verità politiche assolute per alcuni, ma non per altri.
La mia tesi è chiara: una teoria universale, di qualunque tipo, nega il pluralismo. Ogni presunta teoria universale è pur sempre una teoria particolare tra le tante, la quale pretende una validità universale, oltrepassando così i limiti della sua stessa legittimità. Inoltre, nessuna teoria può essere assolutamente universale, perché la teoria, la contemplazione della realtà, non è una contemplazione universale, né la “verità” (teoretica) è tutto ciò che nella Realtà c’è.
I limiti interni del Logos
Abbiamo in precedenza indicato l’impotenza del logos ad unificarsi (identificarsi) completamente con se stesso, mostrando in tal modo una dimensione della Realtà “incommensurabile” con il logos, o piuttosto “incommensurata” con esso. Abbiamo implicitamente menzionato il Non-dicibile ed il Non-detto, così come l’Impensabile e l’Impensato. Abbiamo indirettamente realizzato che c’è un posto per l’Impensato e per il Non-detto. Il Non-dicibile e l’Impensabile ricadono in qualche modo nell’ambito del linguaggio e del pensiero in quanto ne siamo ancora consapevoli. Con l’Impensato è diverso: non ne siamo consapevoli. Noi ci rendiamo conto soltanto a posteriori di qualcosa rimasto impensato per un certo tempo, e a partire da lì ipotizziamo che potrebbe esserci dell’altro, e che forse qualcosa resta sempre impensato – ma non possiamo né parlarne né dimostrarlo. Noi parliamo del Non-dicibile come di quella x circa la quale niente altro può essere detto. Se parlassimo del Non-detto, lo distruggeremmo; sarebbe una contraddizione in termini.
Vorrei discutere qui i limiti interni della parola. La lingua non è né singolare né plurale. Come la nozione di persona personale, essa sfida il numero. Una persona non è soltanto un individuo singolo. Un io comporta un tu, ed entrambi implicano egli/ella/esso/essi/noi. Un io isolato è una contraddizione in termini; esso è un io solo perché c’è un tu – e viceversa.
Similmente, la lingua comporta non solo più di un soggetto parlante (un singolo individuo non parla – non ce ne sarebbe bisogno, né avrebbe un significato), ma anche più della lingua. La lingua al singolare non ha senso. Non c’è lingua privata, né c’è una singola lingua. Primo, di fatto, non esiste soltanto una lingua: esistono al mondo molte lingue. Secondo, di diritto, nessuna lingua può esistere da sola. Una singola lingua (ciò che implica un solo parlante), coinciderebbe con le cose che dice, e le parole sarebbero le cose. Non ci sarebbe distanza tra la parola e la cosa. Se ci fosse una sola lingua, la cosa stessa sarebbe espressione di se stessa, e non ci sarebbe alcun bisogno di esprimerla altrimenti.
Per lingua non intendo ora, ad esempio, l’italiano. L’italiano, in quanto parlato da un certo numero di persone, ciascuna delle quali ha una diversa prospettiva nell’utilizzo di ciascuna parola, è già una lingua polifonica e anche polisemica.
L’italiano è un insieme di parole dotate di certe strutture e suoni comuni. Ciò che ora chiamiamo lingua, o una lingua, è l’integrale omogeneo di un gruppo di parole. Faccio riferimento a una singola lingua nel senso di una singola parola di un singolo parlante (ovvero di una pluralità di parlanti che utilizzano la stessa identica parola). Le parole non sono cose (enti); agli enti possono essere attribuite parole diverse: altrimenti la parola sarebbe l’ente o ni-ente. Nessuna parola esaurisce la cosa; nessuna parola esprime la cosa completamente. Nessun nome è il vero nome, il nome che ricopre totalmente la cosa. La lingua è tale perché parla, dice, spiega le cose e le rivela, le svela alle persone per le quali, precisamente, esse sono cose. Questa riflessione fondamentale, rilevante per la nostra trattazione, viene troppo spesso trascurata.
La frase “In principio era la Parola” significa in molte tradizioni, dall’Asia all’Africa, che in principio c’era un Parlante, un Ascoltatore, una Parola detta ed un Significato di quella parola. Senza questa quaternitas perfecta non c’è Parola. Se “la Parola era all’inizio”, ora, dopo l’inizio, ci sono parole, lingue e una pluralità di queste quaternitates. La tentazione di afferrarle tutte tramite il ritorno all’inizio è comprensibile, ma va anche capito che “voler essere come Dio” è stato condannato da Dio stesso come tracotanza che conduce l’uomo all’alienazione. Mi si permetta di concludere questo riferimento dicendo che ciò che quella tradizione ci dice è di diventare Cristo stesso – ipse Christus, non alter Christus .
Più semplicemente: noi non parliamo la lingua. Noi parliamo una lingua, una lingua che ha relazioni con altre lingue, ciascuna delle quali rappresenta una nuova prospettiva sul mondo, una nuova finestra e spesso un nuovo panorama. Non possiamo capire tutte le lingue del mondo. Possiamo magari oltrepassare i limiti di una dozzina di lingue, e divenire consapevoli della multidimensionalità delle cose cui attribuiamo parole tanto diverse. Altre persone possono a loro volta oltrepassare altri limiti, e così la rete si estende in tutto il mondo, ma senza alcun centro. Ciò è quanto accade nelle culture prevalentemente orali.
Gli “ignoranti”, in molti paesi del cosiddetto Medioriente ed India, e credo similmente in Africa, non sono persone che non sanno leggere e scrivere (che è una fissazione occidentale), ma individui che conoscono una sola lingua, che capiscono solo il dialetto del proprio villaggio. In effetti, ciò che chiamiamo lingue non sono che dialetti che si sono diffusi e sono stati sanzionati da Accademie Reali e Istituzioni culturali, ricevendo il suggello di modo ufficiale o corretto di dire le cose. Questo è un fenomeno inaudito verificatosi pochi secoli fa in Europa, e ancora oggi in molte parti del mondo. Le vere lingue sono i dialetti.
Gli ignoranti sono quelle persone che non sanno distinguere una certa locuzione da ciò che significa, perché essi conoscono solo quella locuzione e non sanno che la “stessa” cosa può essere detta in modi diversi (niente è assoluto). In effetti ciascun villaggio sviluppa la propria lingua, ma i suoi abitanti sono perfettamente consapevoli che a qualche chilometro di distanza alla “stessa” cosa viene dato un altro nome, che essi conoscono. In questo modo essi non confondono il nome con la cosa. (Ciò che è importante di tutto questo non è come conoscere il giusto nome degli utensili da acquistare al mercatino rionale, bensì come capire parole viventi come bellezza, giustizia, proprietà, cortesia). Essi sanno che nessuna parola, nessuna lingua possono esaurire l’immensa varietà dell’esperienza umana. Per cui è soltanto insieme, in colloquium, che giungiamo all’universalità della vita umana.
Una teoria universale richiede che ci sia una lingua universale, una lingua in cui tutte le lingue vi si ritrovino riprodotte, riflesse, o in cui possano essere tradotte. Tuttavia, una lingua universale non esiste. E, se esistesse, rappresenterebbe un impoverimento della ricchezza delle diverse lingue.
Certamente possiamo e anzi dobbiamo estendere il significato delle parole ai limiti del possibile, oltre i quali tale significato viene smarrito. Ho citato altrove l’esempio di “grazia”, che per un lungo periodo fu considerata dalla teologia cristiana proprietà esclusiva del cristianesimo, quasi per definizione. Oggi abbiamo finalmente salvato questa parola dal significare solo la grazia salvifica come parte della natura divina, come l’apostolo Pietro la intendeva. Ci sono anche religioni indiane della grazia, cosa che la teologia cristiana non nega, pur cercando per questo fatto delle spiegazioni teologiche. Tuttavia le parole, nonostante la loro elasticità, hanno i loro limiti.
La teologia ne è un caso esemplare. Possiamo dire che con theos intendiamo il concetto cristiano; ma possiamo includere nel significato di questa parola ciò che il buddhista intende (pur senza utilizzare una parola specifica) e ciò che il marxista intende (tramite la negazione di un tale essere)? Se intendiamo solo la trascendenza, ebbene, diciamolo, ma non parliamo del Trascendente.
Al fine di trattare adeguatamente i problemi interculturali, ho sviluppato una teoria degli equivalenti omeomorfici come analogie di terzo grado. “Brahman” non è la traduzione di “Dio”, ad esempio, ma entrambi svolgono funzioni equivalenti all’interno dei loro rispettivi sistemi. Possiamo forse trovare gli equivalenti omeomorfici della parola “teologia”, ma non possiamo assumere che questa parola racchiuda tutti questi equivalenti, proprio come Dio non copre tutto ciò che si intende con Brahman. Può anche darsi che sul piano dottrinale queste nozioni siano incompatibili: ad esempio, o c’è un Dio creatore, o un Brahman inattivo (non-creatore), ma non possono esserci entrambi, nonostante essi, nei loro rispettivi sistemi, siano non solo legittimi ma necessari. Oppure, dobbiamo modificare il significato delle due parole per renderle compatibili all’interno di un singolo sistema. Ora, è giusto avere una propria lingua ed è giusto cercare di esprimere tutto il possibile nella propria lingua, ciò non di meno essa rimane una sola delle lingue possibili, che non dovrebbe pretendere di soppiantare le altre.
Come ho spiegato altrove , i termini, quali segni per l’informazione scientifica – ovvero quali etichette in un mondo nominalistico – possono certamente venir tutti tradotti più o meno artificialmente in qualunque lingua. Possiamo dire entropia o peso in qualunque lingua. Essi hanno tutti un punto di riferimento misurabile. Non così per parole i cui punti di riferimento sono le cristallizzazioni storiche e culturali delle esperienze umane, i quali possono essere verificati solo condividendo tali esperienze. Come si può tradurre il francese esprit, il catalano seny, il navajo hosho, il sanscrito rayi, l’inglese countenance, il tedesco Stimmung? I poeti ne sanno qualcosa. Una teologia universale della religione non si troverebbe solo ad avere a che fare con l’equivalente di infrastrutture matematiche comuni a molte religioni.
Ci sono stati ai nostri giorni sforzi verso teorie della religione altamente formalizzate. Tentativi utili per trovare schemi formali e strutture comuni della religione. Per quanto mi riguarda, definisco la religione come qualcosa che soddisfa l’equazione y = f(x), dove x è la condizione umana vista da una certa cultura o religione in un dato momento; y è lo scopo, l’obiettivo, la fine, la soluzione, il significato, il risultato (si può dirlo in tanti altri modi) di x, la condizione della vita umana; e f è la funzione che trasforma x in y.
Io sostengo che tutte le religioni pretendono di soddisfare questa condizione e questa forma. Questo linguaggio formalizzato ci aiuta a comprendere il fenomeno religioso trovando una struttura comune “ultima”, dimodoché se qualcosa soddisfa l’equazione, come ad esempio un certo tipo di umanismo, esso dovrebbe – o potrebbe – essere chiamato religione, sebbene l’etichetta “religione” non sia usuale. Ma tutto ciò è lontano dal fornirci una teoria universale tramite la quale comprendere la religione. Esso ci fornisce certo una specie di “algebra” i cui limiti ho commentato altrove.
Una genuina teoria universale delle religioni dovrebbe essere una sorta di teoria di teorie, in quanto ogni religione ha i suoi pensatori e i suoi sistematizzatori che portano avanti le teorie delle loro rispettive religioni, che le si chiami teologie, filosofie o altro. Una teoria di teorie conduce a una lingua di lingue, una metalingua, una metateoria. Per ora vogliamo soffermarci sulla dialettica di tali tentativi. Ora: o la teoria di teorie è un’altra teoria, che ricade quindi nella classe di ciò di cui pretende di rappresentare l’insieme (che è una contraddizione), oppure essa è una metateoria, cioè non una teoria ma qualcos’altro. Cosa può essere questo “altro” se non un’altra, più sofisticata, teoria, di un secondo grado, per così dire? Ma allora potremmo aver bisogno di un’altra teoria di un terzo grado per spiegare le altre eventuali metateorie che potrebbero emergere, et sic ad infinitum. Se l’“altro” è di un altro ordine, non possiamo più chiamarlo “teoria”; esso cessa di appartenere all’ordine del logos. Questa intuizione apre una porta al nostro discorso successivo (Cfr. il paragrafo “L’alternativa”, nel seguito). Ma c’è ancora un altro punto da considerare.
I limiti esterni di ogni teoria
Abbiamo visto i limiti interni di una teoria universale. Ma c’è dell’altro. Non c’è bisogno di essere marxisti o di seguire una particolare sociologia della conoscenza per sottoscrivere l’intuizione filosofica per cui ogni teoria proviene da una prassi ed è da essa nutrita, anche se spesso le due si trovano in opposizione dialettica. Ogni teoria non solo cerca di spiegare lo status quo (delle scienze fisiche, ad esempio); essa deriva anche proprio dallo status quo (della fisica post-einsteiniana, nel nostro esempio). È sufficiente che la prassi cambi (nel nostro caso sarebbe l’apparire di un fatto fisico inspiegato) per rovesciare tutte le teorie esistenti. Cosa ne sarebbe di una teoria universale della religione se improvvisamente (a almeno bruscamente) apparisse una nuova religione, o anche una nuova nozione di religione? La teoria universale dovrebbe essere abbandonata, oppure essa dovrebbe negare a priori il carattere di religione alla nuova arrivata. Non dimentichiamo che per moltissimo tempo il confucianesimo e il buddhismo non furono considerate religioni, perché non rientravano nei canoni di una ben definita teoria della religione. Temo che qualcosa di simile accada al marxismo e all’umanismo, ai quali molti negano il nome (e non solo l’etichetta) di religione.
Ho già fatto allusione al monomorfismo culturale (colonialistico) dal quale provengono molte teorie universali. Esse assumono che siamo oggi in una condizione migliore che mai per conoscere l’essenza della religione. In quanto liberi da ogni volontà di dominio, tutto ciò che dobbiamo fare è valutare e comprendere la situazione (religiosa) presente – senza essere consapevoli che proprio questo atteggiamento da un lato consacra, per così dire, lo status quo, dall’altro lo incanala in una direzione molto particolare. In altre parole, una teoria universale della religione è carica di sottintesi politici. Un esempio eloquente ai nostri giorni è quello della cosiddetta teologia della liberazione all’interno della Chiesa cattolica, che crea scompiglio nelle istituzioni perché non corrisponde ad una “teoria universale delle religioni cristiane” sostenuta dal Papa di quella chiesa.
Una teoria è solo la spiegazione intellettuale di un certo dato, ma spesso ci si dimentica completamente del fatto che il dato compare in quanto tale solo alla luce di una teoria particolare. La relazione fra teoria e prassi è quella di un circolo vitale – non di un circolo vizioso. Ogni prassi umana sfocia in una teoria ed ogni teoria sfocia in una prassi, non perché una sia basata sull’altra e la presupponga (e viceversa, ciò che costituirebbe appunto un circolo vizioso), ma perché entrambe sono componenti intrinseche di un solo e stesso fattore umano. Entrambe sono interdipendenti, sebbene non attraverso un legame causale, e probabilmente nemmeno per mezzo di una dialettica logica. È piuttosto una relazione dialogica ying-yang. Non c’è sintesi possibile, ma solo una polarità costitutiva e mutuamente dipendente.
Il problema è stato studiato abbastanza, per cui ci risparmieremo qui di approfondirlo . Ci basta averlo menzionato. In una parola: ogni presunta teoria universale dipende da una prassi che è ben lontana dall’essere universale. Essa è un colosso di ferro dai piedi d’argilla!
L’ALTERNATIVA
Cosa fare allora se, rifiutata ogni megalomaniaca teoria universale, scorgiamo in quell’intento da un lato una latente volontà di dominio e dall’altro la paura di perdere l’orientamento e di diventare vulnerabili, una volta perso il senso del tutto? Ribadisco che non sto minimizzando l’importanza del nobile desiderio di superare dottrine esclusivistiche e di aprire vie di comunicazione fra tradizioni spesso troppo irrigidite. Tuttavia, riscontro un cambiamento in un atteggiamento umano fondamentale che può aver avuto inizio molto presto nella storia umana: si tratta dello slittamento da una naturale fiducia nella realtà a una sfiducia culturale, anche di se stessi. Si potrebbe richiamare il dubbio esistenziale di Cartesio: anche la nostra mente potrebbe ingannarci, se non fosse per un Dio verace e degno di fede. Inizia qui una cultura della sfiducia (che è diversa dalla critica) che genera una civiltà della (in)sicurezza (e della relativa ossessione per la certezza). Ma allora, dobbiamo forse abbandonare ogni posizione critica oppure, sull’altro versante, ogni speranza di comprendere l’altro? Dobbiamo rassegnarci a spiegazioni provinciali e magari a una maggiore rivalità, fino alle guerre tra “teologie” e religioni? Tutt’altro. Non ho bisogno di ripetere che tutta la mia vita è stata orientata alla mutua comprensione e alla cooperazione fra le tradizioni religiose.
Dopo aver criticato una teoria universale, non cadrò nella trappola di proporne una mia. Ciò di cui sono persuaso può essere riassunto nei tre titoli di questa terza parte. Primo, dobbiamo mettere ordine in casa nostra, per così dire. Secondo, dobbiamo aprirci agli altri; e terzo, noi tutti (o, se necessario, noi soli) dobbiamo affidarci al senso complessivo dell’esperienza umana.
Dovrei aggiungere qui che questi tre momenti sono intrecciati e si richiamano l’un l’altro. Essi sono tre momenti dell’unico stesso atteggiamento religioso fondamentale; atteggiamento che, sostengo, è un atteggiamento umano essenziale. È fiducia nella realtà. Apistia è la causa dell’ignoranza, dice Eraclito (Framm. 86). Senza una certa fiducia, l’essere umano non può vivere. Ho bisogno di fidarmi dei miei genitori, dei miei amici, del droghiere, della lingua, del mondo, di Dio, della mia evidenza, della mia coscienza o quant’altro.
L’errore fondamentale di Cartesio, in quanto padre della modernità, insieme ai fondatori della “nuova scienza”, che da allora ha dominato la civiltà occidentale, è che una volta che il metodo del dubitare di ogni cosa inizia coscientemente, non ha più fine, e tuttavia esso ha un inizio, una fondazione che si dà per scontata. Dio, per Cartesio, è l’“oggetto” che metterà fine al regressus ad infinitum, ma ciò che egli non scorge è il suo dare per scontato l’ego del suo dubbio come quello del suo cogito. Anche se egli dubita di dubitare o di pensare, il suo ego vi è sempre presupposto.
Nasce così l’individualismo moderno. E una volta identificati noi stessi con la nostra singolarità, andremo freneticamente in cerca di una fondazione. La singolarità ha bisogno di essere supportata, fondata: io non sono più un elemento costitutivo dell’universo; non sono più in comunione con il tutto, non sono più il tutto. Io non sono più, perché non potrei essere. L’angoscia è la compagna di una singolarità isolata. Io devo giustificare la mia esistenza e conquistare il mio essere; sono diventato estraneo alla realtà, un mero spettatore che improvvisamente scopre di non avere il biglietto (alcuna ragione) per vedere (partecipare a) lo spettacolo del reale. L’estraniazione inizia. Potremmo dire che questo è il significato della perdita dell’innocenza. Può darsi. Ci scopriamo nudi – cioè soli, alienati dal resto dell’universo.
In ogni caso, il fatto è che la vecchia innocenza non può essere recuperata. Una seconda innocenza è una contraddizione in termini: nel momento in cui prendessi coscienza che si tratta della seconda, essa cesserebbe per ciò stesso di essere realmente innocenza . Non a caso c’era un angelo con una spada di fuoco, all’ingresso del paradiso, ad impedire il ritorno. Non serve a niente tornare indietro. Ma ci può essere una nuova innocenza, tanto nuova da non dover neanche ricordarsi della precedente, o piuttosto da non dover credere nella prima innocenza. L’essenza del paradiso è di essere perduto, per sempre. È la necessaria ipotesi intellettuale per il mito della caduta, che sia di Eva o di Galileo/Cartesio e soci. All’orizzonte appare il mito della resurrezione.
Avendo scoperto la precarietà dell’individuo – ovvero, avendo praticamente esaurito tutti gli argomenti della ragione relativi a un mondo migliore, o a una buona vita, alla sicurezza totale, o alla fondazione reale del pensiero, del comportamento, ecc. – avendo scoperto nella intera spiegazione di noi stessi e dell’universo almeno un punto debole, che priva di fondamento ogni cosa, possiamo finalmente fare un salto, avere una metanoia, una conversione, e scoprire che, a dispetto di tutti i nostri sforzi, avevamo conservato per tutto il tempo una inconscia fiducia nella realtà, forse nella vita, certamente in “ciò” che rende l’intera impresa umana un’avventura, che sia o meno dotata di senso. Scopriamo, in breve, che potrebbe essere tutto un gioco; magari brutto, illusorio o quant’altro, ma in ultima istanza è il nostro gioco, il nostro passatempo, la nostra avventura. In una parola, noi riconosciamo, crediamo, di essere stati creati, o gettati, di esistere, di sognare, di vivere o anche di star immaginando tutto, ma non di meno di star facendolo. È a questa fondamentale fiducia umana che mi appello; personalmente confesso d’altronde che non trovo l’avventura umana così noiosa, vacua o negativa.
L’armonia dall’interno
Se parliamo di tradizioni religiose o di religione in generale, non dobbiamo rimanere alla superficie dell’esperienza religiosa dell’uomo. Dobbiamo iniziare dal vivere, conoscere e fare esperienza della nostra tradizione, o di una particolare sottotradizione, nella maniera più intensa e profonda possibile. La religione è probabilmente il luogo in cui si sono scatenati gli atteggiamenti più pericolosi e le passioni peggiori dell’uomo; allo stesso tempo, la religione è il locus dove sono state raggiunte le vette più alte dell’esperienza umana, e dove è emersa la qualità più sublime della vita dell’uomo.
Non mi attarderò qui sulla definizione della religione come ricerca dell’“ultimo”, come insieme di simboli e pratiche dell’essere umano di fronte ai problemi più decisivi circa il senso della vita e dell’universo, non solo su un piano intellettuale, ma ad un livello esistenziale e vitale. La religione è, in ultima istanza, una dimensione della vita umana.
La mia prima tesi è questa: quando cerchiamo di comprendere il fenomeno religioso dell’umanità, non possiamo mettere da parte la nostra personale dimensione religiosa, sviluppata con più o meno vigore nell’ambito di una certa tradizione. Altrimenti, l’intera impresa ne verrà distorta. Solo a quelli che conoscevano il “numero” era permesso entrare nell’Accademia platonica, solo quelli dotati di “fede” possono debitamente praticare una riflessione teologica cristiana. Solo quelli che hanno un titolo di studio in medicina possono praticarla. Solo quelli che sanno governare se stessi possono veramente governare gli altri, dicevano Lao Tze, Platone e i saggi di quasi tutte le tradizioni. Solo quelli che coltivano la dimensione religiosa della propria vita possono davvero osare di arrischiarsi nello straziante compito di cercare di capire cos’è la religione in generale. Lo studio della religione non è la classificazione di dati “religiosi”, ma lo studio della dimensione religiosa dell’essere umano. Non sto dicendo che tali studiosi debbano possedere una particolare convinzione religiosa, o che essi debbano essere esteriormente “religiosi” nel senso quasi ipocrita in cui la parola viene utilizzata oggi in molti ambienti. Sto affermando che senza una conoscenza al contempo intellettuale ed esperienziale (che implica amore, coinvolgimento e un certo pathos) l’aspettativa di successo in quest’impresa è ben scarsa. Fin troppo spesso individui che si presentano come esponenti di qualche altra religione conoscono veramente poco la ricchezza della loro tradizione.
Ma intendo dire ancora di più, ed è materia delicata da trattare senza essere fraintesi. Non sto predicando il bisogno di appartenere a una qualche istituzione religiosa. Sto suggerendo che è necessario raggiungere una certa intuizione religiosa, padronanza, maturità, saggezza, pace interiore e armonia nel proprio essere, senza le quali qualunque discorso intellettuale sulla religione sarebbe rovinato in partenza. Sto dicendo che la conoscenza richiede “connaturalità” e una certa identificazione con la cosa conosciuta.
La parola occidentale classica per questa gnosis è saggezza (sapientia: sapida scientia). La religione non è come la geologia, che può essere coltivata purché si abbiano abbastanza informazioni sui fatti oggettivi e le teorie scientifiche. Lo studio della religione richiede bensì un tipo speciale di empatia con l’“oggetto trattato”, che non può essere separato dalla propria vita. Possiamo ad esempio scrivere circa il significato simbolico e la straordinaria bellezza della danza come espressione del sacro e confrontare i riti dei greci con quelli degli indiani d’America; ma se non abbiamo dato almeno un’occhiata agli effetti trasformanti della danza, così come alla relazione interna tra la danza e il resto della vita, non riusciremo a progredire nell’interpretazione del fenomeno religioso della danza. La religione è in certo modo un “tutto”. Un buon suonatore di oboe non è automaticamente un buon direttore d’orchestra sinfonica; questi richiede di più della somma della bravura dei singoli strumentisti. La religione, dico io, è la sinfonia, non il cantante o lo strumentista solo.
L’armonia interna a cui mi riferisco si manifesta nel modo spontaneo e creativo in cui siamo capaci di avere a che fare con una particolare religione perché lì siamo veramente “a casa”, capaci di semplificare, collegare cose diverse o mettere insieme le esperienze. Sto parlando di una certa identificazione con la tradizione, che ovviamente non preclude opinioni critiche e giudizi anche aspri, ma che vengono sempre dall’interno. Quando abbiamo a che fare con una religione a questo livello dovremmo parlare ex abundantia cordis et mentis più che da un elenco di proposizioni. La ragione esistenziale è ovvia. Ogni autentico dialogo religioso dissipa i fraintendimenti da ambo le parti e richiede rettifiche e nuove interpretazioni. Se uno dei dialoganti non è “a casa” in questo processo, poiché non conosce in un senso istintivo e quasi spontaneo (ciò che gli Scolastici, seguendo Platone e Aristotele, chiamavano per connaturalitatem) la sorgente viva della propria tradizione, la discussione resterà confitta in mere formulazioni e diverrà rigida. Nessun incontro, nessun dialogo avrà luogo.
Se gli studiosi raggiungono questa intuizione, ciascuno nella propria tradizione, saranno infine capaci di prendere consapevolezza di quello che chiamo effetto della pars pro toto. Per essere breve potrò esemplificarlo nell’atteggiamento che ritroviamo in molti veri maestri spirituali. Sono consapevole di vedere la realtà, sebbene attraverso la prospettiva offerta dalla mia finestra. Posso credere di vedere l’intero panorama del mondo e il significato della vita umana, sebbene attraverso il colore, la forma, il vetro della mia particolare finestra. In più, posso credere che la mia finestra sia la migliore che c’è, almeno per me, e che la visione che offre non sia distorta. Posso per il momento sospendere il giudizio circa la validità della visione offerta da altre finestre, ma non posso nascondere il fatto di credere di poter vedere, attraverso la mia finestra, l’intero panorama – il totum.
In definitiva, nessuno è soddisfatto di ciò che è parziale. Un cristiano, ad esempio, dirà che Cristo rappresenta la totalità, o che è il salvatore universale o il centro dell’universo, tanto per utilizzare metafore diverse, la cui interpretazione qui non ci riguarda. Potremmo certo demitizzarle; ciò non di meno il cristiano non sarebbe soddisfatto di una visione parziale, che Cristo sia soltanto un avatara tra molti, ed accontentarsene come del destino cristiano (o karma?). In breve, i cristiani diranno che in Cristo essi ritrovano la verità – più precisamente, la verità tutta intera.
Ma c’è ancora una terza esperienza attraverso cui bisogna passare. Noi dobbiamo prendere consapevolezza del fatto che vediamo il totum per partem, l’intero attraverso una parte. Dobbiamo riconoscere che l’altro, ad esempio il non-cristiano, possa avere un’esperienza simile e dire che il cristiano prende la pars pro toto, poiché dall’esterno si vede solo la pars, non il totum – la finestra, non il panorama. Come conciliare queste affermazioni a tutta prima contraddittorie? Diremo che l’altro ha ragione nello scoprire che prendiamo la pars pro toto (poiché l’estraneo vede la finestra), ma che anche noi abbiamo ragione nel ritenere di vedere il totum per partem (perché vediamo il panorama). Per noi è un totum, ma per partem, limitato alla nostra visione attraverso la finestra. Vediamo il totum, ma non totaliter, potremmo dire (perché non vediamo attraverso altre finestre). Vediamo tutto quello che possiamo vedere. L’altro potrà vedere allo stesso modo il totum attraverso un’altra finestra, e descriverlo quindi diversamente, ma entrambi vedono il totum, sebbene non in toto, bensì per partem. Rota in rotae (trochos en trocho) dice la mistica cristiana commentando Ez 1,16 .
Ciò significa che non abbiamo bisogno di una teoria universale (come se potessimo avere una prospettiva globale, che è una contraddizione in termini); significa che ciascuno di noi può essere consapevole dell’intero sotto un particolare aspetto, e non solo di una sua parte. Vengono infranti sia il modello soggettivo sia quello oggettivo. Non vi è alcuna universalità, né soggettiva né oggettiva. Vediamo tutto ciò che possiamo – si può ammettere – ma solo tutto ciò che noi possiamo, il nostro totum. L’intero è ciò che è salvifico per noi (e salutare – secondo la saggezza della parole) . Qualcosa è completo quando possiede un’armonia interna, come vorrei ulteriormente sottolineare. Si ricordi che la radice kail (koil), da cui deriva la parola “intero” , indica sia la bellezza sia la bontà.
Apertura dialogica
Una volta iniziato il dialogo interiore, una volta impegnati in un genuino esame intrareligioso, siamo ormai pronti per quello che chiamo metodo imparativo – cioè lo sforzo di imparare dall’altro e l’atteggiamento di permettere alle nostre convinzioni di venir fecondate dalle intuizioni dell’altro. Io affermo che, a stretto rigore, la religione comparata, a questo livello ultimo, non è possibile, poiché non abbiamo nessuna piattaforma al di fuori di ogni tradizione a partire dalla quale delineare una comparazione. Come può esserci una terra-di-nessuno nella terra dell’Uomo? In alcuni campi è possibile, ma non quando ciò che è in gioco sono le fondamenta ultime della vita umana. Non possiamo comparare (comparare – cioè trattare su di una uguale-pari-base), perché non c’è alcun fulcro esterno. Possiamo solo imparare – cioè apprendere dall’altro, passando noi stessi dal nostro punto di vista a un dialogo dialogico che non tenta di vincere o di convincere, ma di cercare insieme a partire dai nostri diversi punti di osservazione. È in questo dialogo, che non può essere sovraffollato, ma solo fra poche tradizioni alla volta, che forgiamo il linguaggio adatto a trattare le questioni che emergono nell’incontro. Ciascun incontro crea un nuovo linguaggio.
Da questi dialoghi non si viene fuori con grandi teorie universali, ma con una approfondita comprensione mutua tra, ad esempio, cristianesimo cattolico e saiva-siddhanta, o tra luteranesimo e islam shi’ah, o ancora tra categorie della filosofia occidentale moderna e religiosità bantu tradizionale. Una volta sviluppata una rete di relazioni, è relativamente semplice stabilire nuovi e più ampi collegamenti ed anche arrischiare categorie comuni. Qui andrebbero menzionate le grandi religioni dell’Africa, in quanto esse offrono al dialogo una difficoltà peculiare, da un lato, ma dall’altro una gran facilità. Il dialogo è difficile perché spesso diventa dottrinale, astratto, metafisico, mentre il genio di molte religioni africane giace altrove. Si incontrano difficoltà nel trovare categorie comuni. Il dialogo è facile, d’altro canto, per la quantità di umanità e di concretezza di tali scambi. Il linguaggio comune è il più semplice.
Questi dialoghi, relazioni, studi reciproci, modificano sia l’opinione dell’uno sia l’interpretazione dell’altro. Le religioni cambiano attraverso questo contatti; esse apprendono da ciascun altro, rinforzando al contempo il proprio punto di vista con una minore ingenuità. Questo tipo di dialogo non è soltanto uno sforzo religioso per i partecipanti, esso è un autentico locus theologicus, per dirlo con la Scolastica cristiana, una sorgente in sé di comprensione (teologica) religiosa. Una odierna teoria di una certa religione deve anche confrontarsi con le altre religioni. Non possiamo più ignorare l’altro. Le religioni degli altri – i nostri vicini – diventano un problema religioso per noi, per la nostra religione.
Ci sono molte teorie della religione che, in qualche modo, rivendicano di essere universali. Ma ci troviamo allora allo stesso punto di partenza, sebbene ad un secondo, più alto e più proficuo, anello della spirale – vale a dire che ci troviamo qui a confronto con una serie di Teorie universali della religione. Ci troveremo ad esempio a trattare con il modo in cui l’islam vede se stesso all’interno del mosaico religioso dei nostri tempi, o il modo in cui il marxismo affronta l’interpretazione hindu della realtà.
Questo processo di mutuo apprendimento non ha fine. La religione imparativa è un processo aperto. Una teoria universale tenta di far luce su ogni cosa nella maniera più chiara possibile in un solo ambito, e finisce eventualmente soffocando ogni dialogo “ultimo”. Nella alternativa che propongo le polarità rimangono, e l’ideale non consiste in una “teoria universale” bensì in un mito (sempre emergente e sempre inafferrabile) che rende possibile la comunicazione e la mutua fecondazione senza ridurre ogni cosa a sola sorgente di intelligibilità o a mera intelligibilità. La teoria è dialogica. In una parola, il carattere dialogico dell’essere è un aspetto costitutivo della realtà. Accordo significa convergenza delle intenzioni, non solo “fusione delle menti”. C’è sempre spazio per la diversità di opinioni e la molteplicità di schemi mentali di intelligibilità.
Fiducia cosmica umana
Ciò che sto cercando di portare avanti non è una contro-teoria, ma una nuova innocenza. Dovremmo guardarci dai tanti sistemi “riformati”, che partono un impulso universalistico maggiore dei sistemi di partenza, per diventare nuove filosofie, nuove sette o nuove religioni. Spesso essi non includono né migliorano gli altri, ma semplicemente ne moltiplicano il numero. Ciò potrebbe non essere negativo – tranne per il fatto che essi non portano a compimento ciò che hanno iniziato. Ogni teoria universale diviene ben presto un’altra teoria.
Dovremmo guardarci dal credere di comprendere le religioni meglio di come esse hanno compreso se stesse. Io non nego che ciò sia anche possibile, ma la nostra interpretazione dovrebbe venir avallata da qualche rappresentante contemporaneo di tale religione, trasformandola almeno un po’, affinché la nostra interpretazione non diventi una nuova religione. La continuità delle tradizioni religiose è più esistenziale che dottrinale. Ad esempio, non ci sono molte dottrine in comune tra un cristiano del primo secolo e uno d’oggi. Il caso dell’induismo è ancora più chiaro. L’induismo è un’esistenza, non un’essenza. Il fattore decisivo è la professione esistenziale, non l’interpretazione dottrinale.
Lo studio della religione, lo ripeto, non è come l’approccio scientifico ai fenomeni fisici, che anche nelle scienze sta diventando obsoleto. Non abbiamo a che fare con fatti oggettivi – ammesso che esistano. Anche nel caso di presunti fatti rivelati, stiamo ancora avendo a che fare con delle costruzioni umane, la cui casa, per così dire, è un gruppo di esseri umani che dà loro l’alloggio di un universo più o meno coerente e protettivo.
Ai nostri giorni percepiamo, forse più di prima, che non ci conosciamo gli uni gli altri, che non ci fidiamo gli uni degli altri, che siamo davvero ai ferri corti circa tante fondamentali intuizioni di immediata rilevanza per la prassi delle nostre vite. Siamo spiacevolmente consapevoli delle nostre differenze perché siamo più coscienti della nostra mutua esistenza e del bisogno di mescolarci – provocato dalla tecnicultura dei nostri tempi. Ma non possiamo tagliar via le nostre divergenze per rimanere soltanto con ciò che abbiamo in comune: tutti vogliamo sfamarci ed essere felici, questo è fondamentale, ma la fame ha molte cause e le strade verso la felicità, e perfino il concetto di felicità, è differente.
Le religioni non possono più vivere in isolamento, tanto meno in ostilità e guerra. Al giorno d’oggi le religioni tradizionali non sono, nel complesso, molto potenti, per cui esse non costituiscono una minaccia importante, tranne ovviamente in alcuni paesi. Molte odierne ideologie religiose secolari hanno una virulenza maggiore e combattono le altre. Esse non possono venir estromesse da un discorso sull’incontro delle religioni. Le ultime due guerre mondiali non furono religiose in senso stretto, ma di certo lo furono in senso lato. Dove troveremo armonia e discernimento?
L’odierna situazione politica ed economica mondiale ci costringe a cambiare radicalmente la nostra concezione dell’umanità e del posto dell’umanità nel cosmo. Il sistema attuale sembra correre verso catastrofi di tutti i tipi. Questa situazione avvicina l’idea che se il cambiamento dev’essere radicale e duraturo, allora deve anche trasformare i nostri modi di pensare ed esperire la realtà. L’argomento, nel caso delle tradizioni religiose, non potrebbe essere più pertinente. Sono pronto a sostenere che, se c’è una soluzione alla situazione difficile di oggi, essa non potrà essere frutto di una sola religione o tradizione, ma dovrà venir fuori dalla collaborazione tra le diverse tradizioni del mondo. Nessun uomo, né nessuna tradizione religiosa è oggi autosufficiente e capace di salvare l’umanità dai problemi del presente. Non possiamo più dire “È un tuo problema”. L’induismo non sopravvivrà se non farà i conti con la modernità. Il cristianesimo scomparirà se non incontrerà il marxismo. La religione tecnocratica distruggerà se stessa se non presterà attenzione, ad esempio, alla tradizione amerindia, e alla svelta. L’umanità crollerà se non metteremo insieme tutti i frammenti delle culture e delle religioni sparse per tutto il mondo. Ma questo “spirito di solidarietà” non significa necessariamente unità, né richiede per forza la comprensione.
Ciò che è necessario è la fiducia, una certa fiducia che sostenga lo sforzo comune per fare andare le cose sempre meglio. Intendo qualcosa del genere. Come la stessa parola suggerisce (soprattutto in latino – fiducia), questa “fiducia” comporta una certa “fedeltà” a se stessi, “con-fidenza” nel mondo come cosmo, “lealtà” nello sforzo stesso ed anche (come forse l’etimologia lascia intendere) un atteggiamento che affonda le radici nel suolo della realtà, come un “albero”, una basilare “credenza” nel progetto umano, o piuttosto in una collaborazione fruttuosa tra gli uomini nella complessiva avventura dell’essere. Essa esclude solo il desiderio suicida e negativo dell’autodistruzione e dell’annichilazione di ogni cosa. Essa non elimina la spinta appassionata verso la vittoria dei propri ideali – riprovevole agli occhi di molti nella misura in cui ci si batte per essa come per qualcosa di assoluto.
Altrove ho proposto la distinzione tra la basilare e costitutiva aspirazione umana tramite la quale l’essere umano si costituisce appunto come tale, e i desideri che affliggono l’esistenza umana concreta quando non si percorre il sentiero verso la realizzazione. Questo ha a che fare con la critica buddhista di tanha, trsna, sete, desiderio, la preminente attenzione hindu per la realizzazione, e la preoccupazione cristiana per il dinamismo e la creatività. Esiste un’aspirazione umana primordiale, ma esistono allo stesso modo desideri avventati. La fiducia di cui sto parlando è legata all’aspirazione umana per la quale gli uomini ritengono che la vita valga la pena d’essere vissuta, perché della Realtà ci si può/deve fidare.
Il pericolo di questa aspirazione – nel nostro caso, potremmo dire alla verità – è che essa può diventare un desiderio per la nostra comprensione. In altre parole, il pericolo risiede nella possibile confusione tra il nostro desiderio di capire ogni cosa, in quanto assumiamo (a priori) che la realtà sia (debba essere) intelligibile, e l’aspirazione a trovare il senso della nostra vita e di tutta la realtà. Quest’ultima è la fiducia che ci sia un senso (direzione, dinamismo “sensato”).
Quest’ipotesi non è una teoria universale, e nemmeno una prassi universale. È qui soltanto una invariante culturale relativa, nella misura in cui le eccezioni vengono viste come deviazioni aberranti dalla stragrande maggioranza dei mortali. Questa fiducia è semplicemente un impulso a non mollare nell’impresa di essere ciò che siamo (o dovremmo essere), che qualcuno può chiamare l’impresa di essere umano, altri divino.
Mezzo secolo fa ho chiamato questa fiducia cosmica “principio cosmologico”, ciò che millenni prima veniva chiamato rta, tao, ordo. Anche quando formuliamo la domanda metafisica ultima, “Perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla?” stiamo assumendo che la domanda sia dotata di senso – che sia una domanda reale – anche se non troviamo una risposta, o l’unica risposta è nichilistica. Di questo terreno ultimo si può dire che c’è qualcosa da qualche parte che si chiede se tutto abbia o meno un senso, o che sia tutto il sogno di un sognatore e non è mai esistito al di fuori di quel sogno, o ancora che si tratti di una base davvero molto fragile per la spiegazione dell’universo e del nostro ruolo in esso. Tuttavia, potrebbe essere abbastanza, perché in un modo o nell’altro dobbiamo pur fermarci da qualche parte. Tradizionalmente questo terreno ultimo è stato chiamato Dio, Uomo o Mondo. Abbiamo interpretato ulteriormente queste parole nel senso di coscienza, bontà, potenza, intelligenza, nulla, assurdità, materia, energia e simili. Possiamo cambiare parole e interpretazioni, ma una qualche fiducia fondamentale rimane comunque.
Il fondamento ultimo di questa fiducia cosmica giace nella quasi universale convinzione che la realtà sia ordinata – che, in altre parole, sia buona, bella e vera. È una Realtà divina, dice la maggior parte delle tradizioni umane. Non c’è bisogno di esagerare la bruttezza dell’universo, perché in ultima istanza la Realtà non è cattiva. Può darsi che stia a noi completarla, portarla a compimento, come affermato dal principio fondamentale dell’alchimia, ed eventualmente correggerla, ma non creare un universo meccanico-artificiale che dobbiamo avere sotto controllo perché non riusciamo a fidarci della Realtà. Alla base di questo bisogno di controllo c’è un certo sentire protestante, per il quale la “creazione” è un fiasco, unitamente a una certa interpretazione “umanistica” per la quale il redentore è l’Uomo. Ma la teologia cristiana ci dice che la redenzione implica un dinamismo interno che appartiene in ultima istanza alla “economia trinitaria”.
Excursus culturale
To hen ... diapheromenon auto
auto xumpheresthai, hosper harmonian
toxou te kai luras.
L’Uno in sé discorde,
con sé medesimo s’accorda,
come l’armonia dell’arco e della lira.
ERACLITO, in PLATONE, Simposio, 187 a4
Ciò che sto cercando di demitizzare è la credenza tanto radicata nella mutua convertibilità dell’uno e del vero, ricapitolata nella tradizionale formula: verum et unum convertuntur5. Essa risale fino alla curiosa etimologia di Teodorico di Chartres: unitas quasi ontitas ab on graeco, id est entitas (l’un-ità conduce alla on-tità [essenza], dallo on [essere] greco – ovvero, en-tità [essenza])6; comprendere, allora, equivale a ridurre ogni cosa a unità, che è l’unicità dell’Essere. Questa interpretazione quasi universale, tuttavia, comincia ad andare fuori strada quando la si interpreta quantitativamente. L’Uno non è la controparte dei Molti. To metron è la prima qualità della realtà, secondo Socrate7. La Bibbia afferma che Dio dispose ogni cosa secondo misura, numero e peso (ma non secondo i metri, le quantità e la gravitazione)8.
Nel tentativo di criticare una utopica singola teologia delle religioni, o teologia della religione, e al contempo nel cercare di destare una nuova consapevolezza, mi alleerò qui con uno dei leitmotiv più incisivi di una branca della tradizione occidentale9 – che, ovviamente, predomina in Oriente10. Voglio anche suggerire che questa è stata la prevalente visione umana della Realtà e che la credenza nella possibilità di una spiegazione razionale esaustiva di ogni cosa è l’eccezione. L’alternativa non è l’anarchia né l’irrazionalismo (anche sotto il manto della Gefühlsphilosophien). L’alternativa è una nozione dinamica di libertà, di Essere, e la relatività radicale di ogni cosa rispetto a ogni altra, per la quale tutte le nostre spiegazioni non solo sono relative alla nostra temporalità (perché il nostro è un essere nel tempo), ma sono relative anche al fatto che nessun Assoluto può circoscrivere la complessità del Reale, che è radicalmente libero. L’Assoluto è assolutamente incarnato solo nel Relativo.
Non è sufficiente dire multa et unum convertuntur11, o introdurre una coincidentia oppositorum. Non convince nemmeno il ritorno a una nuova monadologia individualistica12: questi tentativi non assumono una relazione dialogica tra l’Uno e i Molti (hen kai polla)13. Con i concetti di quantità e di individuazione non possiamo risolvere il problema. Dobbiamo introdurre altri simboli. Quello che vorrei proporre qui è l’ampiamente diffuso simbolo della concordia, che come tale sfida la quantificazione14. Né la molteplicità come tale, né la pura unità conducono, e neanche permettono, l’armonia15. L’armonia implica una polarità costitutiva, che non può essere rimpiazzata dialetticamente. Ne verrebbe distrutta.
Concordia non è né unicità né pluralità. Essa è il dinamismo dei Molti verso l’Uno, i quali non cessano di essere differenti né diventano uno, e nemmeno raggiungono una sintesi più alta. Il paradigma qui è quello della musica. Non c’è accordo armonico se non c’è una pluralità di suoni, e neanche se questi suoni si fondono fino a diventare una sola nota. Né molti né uno, ma concordia, armonia.
Ritroviamo questa metafora radicale quasi dappertutto, dall’ultimo mantra del Rg Veda16 a Chuang Tzu17. È lo stesso pensiero che diversamente ripete Eraclito, ripreso da Filolao18, commentato da Ramon Lull19, Pico della Mirandola20, Cusano21 e molti altri22, fino a san Francesco di Sales23, e più tardi fatto proprio da R. C. Zaehner, che così intitola un suo libro24. Questo leitmotiv è stato spesso sopraffatto dalla predominante tendenza alla vittoria e all’unità25. Il simbolo cristiano è la Trinità.
“Ottenere e vincere” dice Lao Tsu26. Combattere e vincere, gli fa eco lo spirito predominante della cultura occidentale: Veni, vidi, vici, dice Cesare27. Rendere ogni cosa inclusiva, direbbe l’India28. Rendere ogni cosa universale, risponde l’Occidente. Sforzarsi di rendere ogni cosa completa, tramite la realizzazione dell’armonia, dice questa terza tradizione.
La mia massima sarebbe allora concordia discors, concordia discordante, che potrebbe venir smorzata dall’opposta “discordia concordante”, perché – come piaceva dire al sempre paradossale Eraclito: “L’armonia nascosta vale più di quella che appare”; o ancora “l’armonia inespressa è superiore a quella espressa ”29.
Ma si potrebbe ancora citare:
Kai ek ton diapheronton
Kallisten harmonian
Kai panta kat erin ginesthai30.
(E dai discordi
bellissima armonia [sorge],
e tutto accade secondo contesa)31.
È lo stesso Eraclito che inneggia all’armonia come risultato della polarità32. Egli lo formula nella maniera più generale: “Forse la natura desidera i contrari e da questi, e non dai simili, si realizza l’accordo”33.
Questa è l’intuizione alla base del carattere “anangolare” della realtà34. A dire la verità, questa esperienza non è così insolita come si potrebbe credere35. Essa perdura fino ai nostri giorni36. Fu con Cartesio che la divergenza di opinioni creò angoscia filosofica, fu l’inizio dell’età moderna. Insisterei su questo. La diversità di opinioni diventa fastidiosa una volta che poniamo la nostra attenzione sulla mera ortodossia, separata dall’ortoprassi , ritenendo che sia la prima ad esprimere l’essenza dell’essere umano. Una volta che diamo per scontato l’individualismo, troviamo scandaloso che ci sia diversità d’opinioni – dimenticando la bella metafora di Fernando de Rojas37. È l’estraniazione del pensiero umano dalla natura che porta all’assunzione che l’univocità sia l’ideale; il pensare comincia a venir compreso come atto del misurare, del calcolare.
Ho citato questi testi per suggerire lo spirito e il metodo in cui mi piacerebbe situare l’intera impresa. Ho citato di proposito principalmente la tradizione occidentale, perché ho criticato soprattutto una teoria occidentale e ho tentato di entrare in dialogo con essa. Lungi da me l’idea di ridurre tutto a una qualunque unità.
Sentiamo parlare di amichevole ostilità, di una polarità tra concordia e discordia, e di un legame tra le due; sentiamo parlare di una concordia discordante, della spinta fondamentale della natura verso la diversità, e cerchiamo di capire che la vera concordia non è unità dell’opinione o uguaglianza delle visioni intellettuali, ma che essa è di un ordine superiore all’intelletto, in quanto implica precisamente lotta, sforzo, dinamismo antagonistico – agon direbbero i greci, come già indicato.
Discordia è disaccordo – letteralmente, disallineare i nostri cuori, senza tuttavia separarli. Perché? Ovviamente perché noi non assolutizziamo le nostre opinioni, né identifichiamo il nostro essere con il nostro “pensiero”, perché realizziamo che, tramite le nostre opposte spinte, vien dato al mondo l’impulso del suo dinamismo proprio ed il suo ordine viene mantenuto.
Le parole fondamentali tramite le quali spesso esprimiamo ciò per cui lottiamo – “unanimità”, “consenso”, “intesa”, “concordia” – hanno tutte un nucleo esistenziale o cordiale. Un unico animus non significa una singola teoria, una singola opinione, ma un’unica aspirazione (nel senso letterale di un unico respiro) e un’unica inspirazione (come uno spirito)38. Consenso significa in ultima istanza camminare nella stessa direzione, non significa avere un’unica visione razionale39. E, di nuovo, il raggiungimento di un accordo suggerisce appunto la cordialità , la gradevolezza, il trovare piacere nell’essere insieme40. Concordia è: mettere insieme i nostri cuori.
Un’altra parola per esprimere l’armonia potrebbe essere simpatia, che non significa in primo luogo compassione sentimentale, individuale, ma il pathos comune a tutto ciò che costituisce la realtà. Simpatia universale è un altro modo per superare la scissione tra interessi individuali e collettivi, l’uno e i molti. E la parola qui suggerisce non solo una ricettività più “femminile” per una cultura preminentemente “maschile”, ma anche una maggiore consapevolezza del mistero della sofferenza (pathos, dukkha) in una civiltà che evita il confronto con questo fattore sommamente elementale, che ci ridesta alla trascendenza e all’interiorità.
Questa è la concordia discordante: una sorta di armonia umana percepita dentro e attraverso le molte voci discordanti delle tradizioni umane. Non vogliamo ridurle a un’unica voce; al massimo, potremmo voler eliminare le cacofonie. Ma, ancora, ciò dipende in larga misura dall’educazione e dalla generosità delle nostre orecchie.
Tutto ciò non dovrebbe essere preso come una mera metafora. Se basiamo la nostra vita sull’importanza della vista, dell’intelletto, della verità, trascurando – a quel livello ultimo – gli altri sensi, il cuore, la bellezza – in una parola, il concreto rispetto al generale – vivremo una vita mutilata. L’erudizione, il sapere accademico e la moderna educazione in generale, per non parlare della tecnicultura, sembrano aver quasi dimenticato tutti questi altri valori che ritroviamo ancora di grande spicco ed operanti in altre culture. Non ho bisogno di comprendere ciò che l’animista, l’hindu, il cristiano intendono, in ultima istanza, quando esprimono le loro rispettive visioni del mondo. Noi possiamo in qualche modo gustare la bellezza della sinfonia, l’inesplicabile concordia che emerge al di sopra delle tante voci discordanti. Il pluralismo ci dice qui che non bisognerebbe assumere per sé (persona o cultura) il ruolo di conduttore dell’orchestra umana, e ancor meno di quella cosmica. Bastano la musica (il divino), i musicisti (l’umano) ed i loro strumenti (il cosmo). Suoniamo ad orecchio!
CONCLUSIONE
Ho cercato di sviscerare con chiarezza alcune delle implicazioni di quest’atteggiamento; potrei riassumerlo con la parola “fiducia” . Con esso intendo una certa fondamentale fiducia nella realtà, che ci sprona a fidarci anche di ciò che non comprendiamo o non approviamo – a meno che non ci siano positivi e concreti motivi per combattere contro ciò che scopriamo essere male o errore. Comprendere che non comprendiamo è l’inizio della conoscenza trascendente, come molte tradizioni spirituali di tutto il mondo ci dicono41. In più, comprendere che l’altro è soggetto di comprensione come me, e non solo oggetto di comprensione, è di nuovo ciò che molte scuole hanno chiamato l’inizio dell’illuminazione42.
Tutto ciò si riduce alla fin fine all’esperienza dei nostri limiti, collettivi e personali, compresi quelli specifici dell’intelletto, non solo in noi, ma in sé. L’ultima funzione dell’intelletto è quella di trascendere se stesso. E ciò è possibile solo diventando consapevoli dei suoi limiti propri – e ciò, insisto, non solo in ciascuno di noi, ma in sé. Se vogliamo ridurre ogni cosa alla coscienza, saremo costretti ad ammettere che la pura coscienza non è cosciente di sé: essa non sarebbe pura. Brahman non sa di essere Brahman, dice coerentemente il Vedanta; Isvara sa che “egli” è Brahman. La conoscenza del Padre è il Figlio, il Logos, dice la Trinità cristiana. Non è irrazionalismo; è il più alto e intrasferibile compito dell’intelletto: divenire consapevole dei suoi confini propri. Nel divenire cosciente (coscienza) di sé, la coscienza diviene cosciente (coscienza) dei propri limiti, e proprio per questo li trascende. Ammettere che la pura Coscienza è consapevole dei suoi limiti, conduce ad ammettere che non Tutto può essere ridotto a Coscienza.
Ciò che tiene unita l’umanità non è l’identità d’opinioni, una lingua comune, la stessa religione e nemmeno il medesimo rispetto per gli altri, bensì la stessa cosa che tiene unito l’universo. Noi mortali non lottiamo solo tra noi, ma anche con gli dèi, per l’ordine dell’universo. E tuttavia questa eris (kama e tapas direbbero i Veda)43 è anche la nostra responsabilità, la nostra risposta alla vera e propria sfida. Tenere unito il mondo, il lokasamgraha della Gita44, è precisamente la funzione del dharma primordiale, del quale gli uomini sono fattori attivi45.
A Pentecoste le genti non parlavano tutte la stessa lingua, né ricevevano traduzione simultanea, e nemmeno comprendevano le reciproche sfumature delle rispettive liturgie. Tuttavia, essi erano convinti, sentivano, percepivano di star udendo le grandi opere di Dio, megaleia tou Theou46.
Questa fiducia cosmica certamente ha una dimensione intellettuale; io stesso ne ho parlato sul piano intellettuale. Tuttavia, non è necessario esprimerlo a parole. Ed è questa fiducia cosmica che sta alla base del dialogo dialogico e lo rende possibile. Il dialogo – su questo siamo tutti d’accordo – non è un trucco, uno stratagemma per conquistare l’altro, per sconfiggerlo. C’è una fiducia basilare per la quale, sebbene non comprendiamo e spesso non approviamo ciò che gli altri pensano e fanno, non abbiamo ancora perso ogni speranza (che è una virtù del presente sempiterno e non del futuro temporale) che l’umana convivialità abbia un senso, che ci apparteniamo, e che insieme dobbiamo sforzarci. Alcuni pensatori potrebbero essere tentati di commentare che questa è un’opzione. Io preferisco dire che è un istinto, l’opera dello Spirito47.
1 Si veda ad es. “Die existentielle Phänomenologie der Wahrheit,” Philosophisches Jahrbuch der Görresgesellschaft, 1964 (Monaco, 1965), pp. 27-54; Religionen und die Religion (Monaco: Max Hueber, 1965); “La philosophie de la religion devant le pluralisme philosophique et la pluralité des religions,” Pluralisme philosophique et pluralité des religions, in E. CASTELLI (A CURA DI) (Parigi: Aubier, 1977), pp. 193-201; “Colligite Fragmenta: For an Integration of Reality,” in From Alienation to At-Oneness: Proceedings of the Theology Institute of Villanova University, F. A. Eigo, ed. (Villanova University Press, 1977; apparso in italiano nel volume R. PANIKKAR, La realtà cosmoteandrica, Jaca Book, Milano 2004), pp. 19-91; “Rtatattva: A Preface to a Hindu-Christian Theology,” Jeevadhara, 49 (gennaio-febbraio 1977) 6-63; The Intrareligious Dialogue (New York: Paulist Press, 1978; apparso in italiano con il titolo R. PANIKKAR, Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi (PG) 1988); “The Myth of Pluralism: The Tower of Babel-A Meditation on Non-Violence; Panikkar in Santa Barbara,” Cross-Currents, 29/2 (estate 1979) 197-230 (apparso in italiano nel volume R. PANIKKAR, La torre di Babele. Pace e pluralismo, Cultura della pace, San Domenico di Fiesole (FI) 1990); “Hermeneutics of Comparative Religion: Paradigms and Models,” Journal of Dharma, 5/1 (gennaio-marzo 1980) 38-51; “Aporias in the Comparative Philosophy of Religion,” in Man and World, 12/3-4 (The Hague: Martinus Nihoff, 1980) 357-83; “Words and Terms,” in Esistenza, Mito, Ermeneutica (Scritti per Enrico Castelli), M. OLIVETTI (A CURA DI) (Padova: CEDAM, 1980; ripubblicato nel 2007 nella raccolta R. PANIKKAR, Lo spirito della parola, Bollati Boringhieri, Torino), 11, pp. 117-33; “Is the Notion of Human Rights a Western Concept?,” Diogenes, 120 (inverno 1982) 75-102; “The Dialogical Dialogue,” in The World’s Religious Traditions, F. Whaling, ed. (Edimburgo: Clark, 1984), pp. 201-21.
2 Come solo esempio, utile non solo per il contenuto ma anche per i suoi ricchi riferimenti bibliografici (soprattutto in tedesco, inglese e francese), si veda Llufs Duch, Religió i món modern. Introducció a l’estudi dels fenòmens religiosos (Montserrat: Abadia, 1984), che mi auguro possa venire al più presto tradotto dall’originale catalano nelle principali lingue europee.
3 Raimundo Panikkar, Myth, Faith and Hermeneutik (New York: Paulist Press, 1979, apparso in italiano con il titolo R. PANIKKAR, Mito, fede ed ermeneutica, Jaca Book, Milano 2000), p. 20.
4 Si veda nel seguito, n. 32.
5 Si veda Aristotele, Met., II, 1 (993 b 30), come locus classico da cui deriva il principio Scolastico – sebbene la lezione di Aristotele sia più sottile: ekaston hos echei tou einai outo kai tes aletheias. Si confronti questo testo con la tradizionale versione latina: unumquodque sicut se habet ad hoc quod sit, ita etiam se habet ad hoc quod habeat veritatem. O, più letteralmente: Quare unumquodque sicut se habet ut sit, ita et ad veritatem. Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theol., I, q. 2, a. 3: Quae sunt maxime vera sunt maxime entia.
6 Commentarium in Boethia De trinitate (Jansen, ed., p. 11), in P. Gaia, Opere religiose di Nicolò Cusano (Classici delle religioni) (Torino: UTET, 1971), p. 636.
7 Cfr. lo stupefacente testo di Platone, Filebo, 66a, dove, dopo la misura come primo valore, viene la proporzione, e solo terza la ragione, seguita dalla techne e successivamente dal piacere.
8 Sap 11,21: Omnia in mensura (metro), et numero (arithmo), et pondere (stathmo) disposuisti.
9 I due simboli moderni potrebbero essere le due figure del diciassettesimo secolo di Cartesio (cogito ergo sum) e Pascal (il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce).
10 Basti citare il famoso testo del Brahma-sutra, 1, 1, 4: Tat tu samanvayat (“Ma ciò [a causa della] armonia”), tra tutti i testi di tutte le scritture sacre – a dispetto del fatto che essi scrivano, insegnino e ordinino cose diverse e prima facie divergenti. Armonia non è uniformità. Anche oggi in India la comprensione religiosa è intesa come dharma samanvaya. Si veda Prabuddha Bharata, 90 (Aprile 1985) 190.
11 Come P. Gaia, Opere, interpreta l’unum come complicatio multorum di Nicola da Cusa.
12 Si veda l’acuto studio di Maurice Boutin, “L’Un dispersif,” in Neoplatonismo e religione (Archivio di filosofia), 51/1-3 (1983) 253-79, commento a François Larvelle, Le principe de minorité (Paris: Aubier, 1981). Ci sono “delle monadi assolutamente disperse e prive di monadologia, di ragione o di universale”, dice Larvelle, perché gli individui sono i “costituenti ultimi della realtà” (ibid., p. 261).
13 Platone, Filebo, 15 D, come locus classico.
14 Questo è il ricco concetto di homouoia, accordo, unanimità, unità d’intenti homo-uoia; proprio come homo-uomos significa dello stesso ordine, legge) nella tradizione ellenica fin da Demostene. Questo accordo è definito come episteme koinon agathon negli Stoicum Veterum Fragmenta, a cura di H. von Arnim (Leipzig, 1903), 111, p. 160; come la scienza dei beni comuni (in Liddell-Scott, A Greek-English Lexicon, Oxford, 1973). Si vedano i riferimenti bibliografici in Liddel-Scott e in Hammond-Scullard (eds.), The Oxford Classical Dictionary (Oxford, 1973).
15 “Se fossero stati simili [homophyla] e d’egual specie [ta homoia], non avrebbero avuto bisogno dell’armonia; ma gli elementi che sono dissimili e di specie diversa [anomoia] e diversamente ordinati, devono essere conchiusi nell’armonia”, scrive il pitagorico Filolao di Crotone, Framm. 6, in H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker (Berlino: Weidmann, 9th ed., 1960; tr. it. H. Diels, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari). È fondamentale l’intero testo.
16 Samani va akutih / samana hrdayani vah / samanam astu vo mano / yatha vah susahasati. (Armoniosa sia la vostra intenzione, / armoniosi i vostri cuori, / possa il vostro spirito essere in armonia, / che possiate essere insieme in concordia!) RV X, 191, 4. Ho proposto una diversa traduzione nella mia antologia The Vedic Experience (Berkeley: University of California Press, 1977, apparso in italiano con il titolo R. PANIKKAR, I Veda. Mantramanjari. Testi fondamentali della rivelazione vedica, voll. 2, RCS, Milano 2001), p. 863.
17 Passim. Si veda ad es., Inner Chapters II (nella traduzione di G. F. Feng e J. English [New York: Vintage Books, Random House, 1974], p. 46).
18 Framm. 10. Si veda Diels-Kranz, Fragmente, I, p. 410.
19 “Per ço que enans nos puscam concordar” sono praticamente le ultime parole di uno dei tre saggi (ebreo, cristiano, musulmano) dopo aver lasciato il gentile (che voleva scegliere il giusto lig [religione] senza la conoscenza dei tre): Ramon Lull, Libre del gentil e los tres savis, in Obres essencials (Barcellona: Selecta, 1957), I, p. 1138. Comunque, Lull è forse troppo a favore dell’unità. Cfr. la dissertazione (Monaco: Evangelisch-theologische Fakultät, 1976) di Francois Medeiros, “Judaisme, Islam et Gentilité dans l’oeuvre de Raymond Lulle”.
20 Dopo /Dip/ comincia la belleza, perchè comincia la contrarietà, senze la quale non può essere cosa alcuna creata, ma sarebbe solo esse Dio: nè, basta questa contrarietà e discordia di diverse nature a constituire la creatura, se per debito temperamento non diventa e la contrarietà unita e la discordia concorde, il che si può per vera deffinizione assignare di essa bellezza, cioèche non sia altro che una amica inimicizia e una concorde discordia. Per questo diceva Eraclito la guerra e la contenzione essere padre e genetrice delle cose; e, appresso Omero, chi maladisce la contenzione è detto avere bestemmiato la natura. Ma più perfettamente parlò Empedocle, ponendo, no la discordia per sè, ma insieme con la concordia essere principio de le cose, intendendo per la discordia la varietà delle nature di che si compongono, e per la concordia l’unione di quelle; e pero disse solo in Dio non essere discordia perchè in lui non è unione di diverse nature, anzi è essa unità semplice sanza composizione alcuna (Commento, II, 9, in H. de Lubac, Pic de la Mirandole [Parigi: Aubier Montaigne, 19741, p. 296, tondo di Panikkar).
In Heptoplus (aliud proemium) egli scrive di nuovo a proposito di un accordo discordante: Quoniam sc. astricti vinculis concordiae uti naturas ita etiam appellationes hi onmes mundi mutua sibi liberalitate condonant: . . . occultas, ut ita dixerim, totius naturae et amicitias et affinitates edocti, . . . Accedit quod, qua ratione haec sunt distincta, quia tamen nulla est multitudo quae non sit una, discordi quadam concordia ligantur et multiformibus nexuum quasi catenis devinciuntur (in de Lubac, Pic, p. 297; tondo di Panikkar).
21 Si vedano la sua opera De concordantia catholica del 1433 e il suo De pace fidei del 1453, pochi mesi dopo la disfatta di Costantinopoli, sebbene Cusano cada in una coincidentia dialettica. Si consideri il suo testo rivelatore: Omnia enim in tantum sunt in quantum unum sunt. Complectitur autem tam ea quae sunt actu, quam ea quae possunt fieri. Capacius est igitur unum quam ens, quod non est nisi actu ist, licet Aristoteles dicat ens et unum converti (De venatione sapientiae, 21).
22 Ad esempio, Postel: Concordia mundi; De orbis terrae concordia; ecc. Erasmo: Querela pacis; Oratio de pace et discordia; Precatio pro pace Ecclesiae; De amabili Ecclesiae concordia. Juan Luis Vives: De concordia et discordia in humano genere (1529); De pacificatione (1529); ecc. Si veda anche Augusto Gentili, “Problemi del simbolismo armonico nella cultura post-elisabettiana,” in E. CASTELLI (A CURA DI), Il Simbolismo del Tempo (Roma: Istituto di studi filosofici, 1973), p. 65.
23 “Introdurre l’unità nella diversità, per creare ordine; l’ordine produce armonia, proporzione; l’armonia, dove c’è perfetta integrità, genera bellezza. C’è bellezza in un esercito quando c’è ordine nei suoi ranghi, quando tutte le divisioni si combinano per formare una sola forza armata. C’è bellezza nella musica quando le voci, intonate, chiare, distinte, si mescolano per dar luogo a una consonanza perfetta, un’armonia perfetta, per raggiungere l’unità nella diversità o la diversità nell’unità – una buona descrizione potrebbe essere concordia discordante; meglio ancora, discordia concordante” (Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, I, 1 [16161; tradotto da R. C. Zaehner all’inizio del suo libro, citato nella nota successiva) [Il testo di Francesco di Sales è apparso anche in italiano con il titolo Trattato dell’amor di Dio, Paoline, 19963].
24 Concordant Discord. The Interdependence of Faiths (Oxford: Clarendon Press, 1970) – the Gifford Lectures, 1967/1969.
25 Basta una citazione: So wird also die Universalgeschichte, die Geschichtsphilosophie und die Zukunftsgestaltung in Wahrheit zu einem möglichst einheitlichen Selbstverständnis des eigenen Gewordenseins und der eigene Entwicklung. Für uns gibt es nur die Universalgeschichte der europäischen Kultur, die natürlich der Blicke auf fremde Kulturen praktisch and theoretisch bedarf, um sich selbst und ihr Verhältnis zu den anderen zu verstehen, die aber mit den anderen dadurch nicht etwa in eine allgemeine Menschheitsgeschichte und Menschheitsentwicklung zusammenfliessen kann. Unsere Universalgeschichte ist um so mehr ein europäisches Selbstverständnis, als nur der Europäer bei seiner Häufung verschiedenster Kulturelemente, seinem niemals ruhenden Intellekt und seiner unausgesetzt strebenden Selbstbildung eines solchen universalhistorischen Bewusstseins auf kritischer Forschungsgrundlage für seine Seele bedarf (E. Troeltsch, Der Historismus und seine Probleme [Tubinga: Mohr, 1922; ristampa, Aalen, 19611, p. 71 – vol. 3 dei Gesammelte Schriften; tr. it. di F. TESSITORE E G. CANTILLO (A CURA DI), Lo storicismo e i suoi problemi, 3 voll., Guida, Napoli 1985-1989-1993). Mi sembra che la maggior parte degli sforzi verso l’universalità siano ancora sotto questa suggestione post-hegeliana. “L’europeismo” (Der Europäismus) è, piuttosto significativamente, il titolo del cap. 4, parte 2, di Troeltsch.
26 Tao Te Ching, 22; anche 40, 51, 62, ecc.
27 Plutarco, Vita di Cesare, 50, 3 (elton, eizon, enikesa) ed anche Moralia, 206e; citato anche da altre fonti: Lucio Anneo Floro (II sec.), 2, 13, 63; Dione Cassio (II sec.), 42, 48; fino allo storico bizantino del XII sec. Giovanni Zonara, 10, 10; ecc.
28 Cfr. G. Oberhammen, ed., , Inklusivismus. Eine indische Denkform (Vienna: Institut für Indologie, 1983).
29 Ho tradotto ora la mia massima in modo diverso. Aphanes significa letteralmente “senza essere phaneros” (visibile, che appare), dal verbo phaino, “brillare, illuminare”, e così “lasciar conoscere, apparire, manifestare”. La radice pha (phn, phan... ) significa “brillare” (cfr. fantasia), ma immediatamente collegata a phemn: “dire”, phasis, “la parola” phone (cfr. profeta) – cfr. voce, sinfonia, fenomenologia, epifania, telefono, ecc.
30 Eraclito, Framm. 8 (cfr. anche Empedocle, 124, 2). Il testo si riferisce probabilmente dapprima alla musica, e da lì alla più vasta realtà. Cfr. una traduzione standard: Das Widerstrebende vereinigte sich, aus den entgegengesetzten (Tönen) entstehe die schönste Harmonie, und alles Geschehen erfolge auf dem Wege des Streites (W. Capelle [traduzione e introduzioni], Die Vorsokratiker, Die Fragmente und Quellenberichte [Stoccarda: Kröner; Taschenausgabe Nr. 119, 1968], p. 134). La traduzione standard di Aristotele a cura di W. D. Ross, Etica nicomachea, VIII (1155 b 4), recita: “and Heraclitus [saying] that ‘it is what opposes that helps’ and ‘from different tones comes the fairest tune’ and ‘all things are produced through strife’” (tr. it. di C. Mazzarelli, Etica Nicomachea, RCS, Milano 2000, p. 201: “Ed Eraclito quando dice che ‘l’opposto è utile’, ‘dai suoni differenti nasce la più bella armonia’ e ‘tutte le cose si generano dalla discordia’”). Cfr. il libro con il quale in pratica Romano Guardini inizia la sua carriera intellettuale, Der Gegensatz und Gegensätze. Entwurf eines Systems der Typenlehre (Friburgo: Herder, 1917), con modifiche sostanziali fino alla seconda edizione del 1955 con il titolo Der Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebendig-Konkreten.
31 La parola eris, da erei o er (cfr. il tedesco errege, reize), significa “conflitto, litigio, lotta, discordia, disputa”. Eris è anche la dea della discordia nel matrimonio di Peleo e Teti. Nell’Eumenide (975) di Eschilo, eris agathon appare con una connotazione positiva. Per eris cfr. anche ERACLITO, Framm. 80: polemon eonta xunon kai diken erin kai ginomena panta kat’ erin kai chreon [“Bisogna però sapere che la guerra è comune (a tutte le cose), che la giustizia è contesa e che tutto accade secondo contesa e necessità”.
32 Si veda ERACLITO, Framm. 51, in Diels-Kranz, Vorsokratiker, I, p. 162, e il suo commento platonico in Simposio, 187, con la famosa metafora dell’arco e della lira, citata in epigrafe a questo excursus. Potremmo anche tradurre: “L’Uno in sé discorde, con sé medesimo s’accorda, come l’armonia dell’arco e della lira”.
33 Isos de ton enantion he physis glichetai kai ek touton apotelei to symphonon, ouk ek ton homoion. Cfr. Diels-Kranz, Vorsokratiker (Eraclito, framm. 10). Si veda anche Aristotele, De mundo (5, 39 b, 7).
34 “Agonic” (tradotto nel testo con “anangolare”, neologismo che tuttavia non conserva la parentela con l’etimologia greca del termine inglese) contiene quasi tutti gli elementi: significa assemblea, agora, raduno. Questo raduno, essendo qualcosa di umano, è un luogo di parola, dove la parola è suprema. Ma le persone parlano per contestare le opinioni degli altri. Agone (Agon) è la lotta (struggle), in senso militare quanto intellettuale (come ancora si usa). È questa veemenza (vehemence) che suscita la potenza (power), sebbene talvolta susciti, come si sa, ansia (anxiety), angoscia (agony). Un processo (trial), un’azione legale (legal action), possono essere attività angosciose (agonizing). Tutte le parole inglesi in corsivo sono significati di questa parola, la cui radice vuol dire precisamente “guidare, trasportare, accompagnare, condurre, portare” ecc. Cfr. agos, il capo. La radice ago significa “capeggiare”. Cfr. il sanscrito ajah, “guidare, spingere”.
35 Come singolo esempio (ma con più di una valenza) potrei citare le prime righe della Prefazione al classico spagnolo La Celestina di Fernando de Rojas (prima edizione, Burgos, 1499): Todas las cosas ser criadas a manera de contienda o batalla, dice aquel gran sabio Heraclito en este modo: Omnia secundum litem fiunt. Sentencia a mi ver digna de perpetua y recordable memoria. . . . Halle esta sentencia corroborada por aquel gran orador y poeta laureado, Petrarca, diciendo: Sine lite atque offensione nihil genuit natura parens. Sin lid y ofension [combate in spagnolo moderno] ninguna cosa engendro la natura, madre de todo. [Osservo tra parentesi che parens è qui tradotto con madre. Nella religione romana la terra è chiamata sacra parens; cfr. J. Ries, Le sacre comme approche de Dieu et comme resource de l’homme (Lovanio-la Neuve: Coll. Conferences et Travaux, nr. 1, 1983)]. Dice mas adelante: Sic est enim, et sic propemodum universa testantur: rapido stellae obviant firmamento; contraria invicem elementa configunt; terrae tremunt; maria fluctuant; act quatitur; crepant flammae; bellum immortale venti gerunt; tempora temporibus concertant; secum singula, nobiscum omnia. Que quiere decir; “En verdad asi es, y asi todas las cosas de esto dan testimonio: Las estrellas se encuentran en el arrebatado firmamento del cielo, los adversos elementos unos con otros rompen pelea, tremen [in spagnolo moderno tiemblan] las tierras, ondean los lares, el aire se sacude, suenan las llamas, los vientos entre si traen perpetua guerra, los tiempos con tiempos contienden y litigan entre si, uno a uno, y todas contra nosotros.” ...Mayormente pues ella con todas las otras cosas que al mundo son, van debajo de la bandera de esta notable sentencia: “Que aun la misma vida de los hombres, si bien lo miramos, desde la primera edad hasta que blanquean las canas, es batalia” (a cura di Bruno Mario Damiani, La Celestina [Madrid: Ediciones Catedra, 11a ed., 19831, pp. 45-47)
36 Si veda il celebre libro di Miguel de Unamuno, La ageonia del cristianismo (Madrid: Renacimiento, 1931; tr. it. di C. BO, L’agonia del cristianesimo, SE, 2006); l’edizione francese è del 1925 (Parigi: F. Rieder).
37 No es menor la discension de los filosofos en las escuelas, que la de las ondas del mar (Rojas, La Celestina, p. 48).
38 Animus traduce non solo il greco psyche ma anche thymos e pneuma, sebbene la sua più propria controparte in greco sia anemos – in sanscrito aniti (anilah), che vuol dire “respirare”.
39 Il latino sentire (da cui deriva “senso”) significa provare (nel senso della sensazione; cfr. sentimento) e così anche discernere tramite i sensi (sensibile, sensibilità, ecc.); significa anche sentis, un percorso (cfr. lo spagnolo sendero) e quindi direzione. Cfr. l’alto-tedesco antico: sinnen, sia andare, sia pensare (percepire la propria strada).
40 L’etimologia del latino gratum, sanscrito gurtas, piacere, e anche gioia, è correlata a charis che vuol dire benevolo, grazia, gioia, gratuità, piacevole, favore, carità. Cfr. lo spagnolo agradar, accontentare.
41 Si veda Kenopanishad, II, 3 (e anche RV 1, 164, 32), ecc.
42 “Conoscere gli altri è la saggezza. Conoscere il sé è l’illuminazione” (Tao Te Ching). La ragione è evidente. Io posso conoscere gli altri gettando su di essi la luce della mia conoscenza, ma non posso conoscere me stesso in questo modo. È necessaria un’altra luce, esterna a me, che cada su di me. Per raggiungere l’illuminazione, ho bisogno di venire illuminato – ovvero, ho bisogno di venir conosciuto da qualcun altro. Ho bisogno di essere amato. Cfr. epignosomai kathos kai epegnosthen; “Io conoscerò così come sono conosciuto”; cognoscam sicut et cognitus sum, nella Vulgata (1Cor 13,12). Questo è il luogo della grazia – di nuovo sincerità e movimento.
43 RV X, 129, 4 e 190, 1; ecc.
44 B G III, 20 & 25.
45 RV X, 90,16: dharmani prathamani. Cf. B G VII, 11.
46 At 2,11.
47 Questa conclusione non è solo un modo di dire. Il nucleo della cultura occidentale si basa sul binomio ultimo Essere/Pensare ovvero, detto in gergo teologico: Padre/Figlio (Logos). Questa diade di base ha spesso messo in ombra il paradigma trinitario, che solo supera la critica della scienza (“le leggi di natura sono immutabili”) e crea lo spazio della libertà – come ho indicato altrove.
(«Filosofia.it» online, ISSN 1722-9782, ottobre 2008)
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