giovedì 16 aprile 2009
I. Illich, Pervertimento del cristianesimo, ed. Quodlibet, 2008
Tra il 1997 e il 1999 David Cayley raccolse a più riprese una lunga intervista a Ivan Illich sul tema del “pervertimento del cristianesimo”; il testo dell’intervista venne montato a stralci, intervallando le considerazioni di Illich con i commenti di Cayley, dando luogo ad un “autoritratto a due voci” che fu mandato in onda all’inizio del 2000 dalla CBC, radio pubblica canadese. Dopo alcune edizioni a fascicoli negli Stati Uniti e in Europa, questo testo, Pervertimento del cristianesimo, è la prima edizione in volume della trascrizione integrale di quella trasmissione.
Corruptio optimi pessima (non c’è niente di peggio che la corruzione del meglio) è la formula con la quale si può riassumere il pervertimento di cui parla Illich, tanto peggiore quanto migliore è l’intenzione più pura del cristianesimo. Tale pervertimento è quel fenomeno per il quale la Chiesa cattolica, a partire dal XII secolo, «ha cercato di costruire un ordine cristiano sulla terra, rafforzando la fede col potere, nel tentativo di regolare la carità, garantire la speranza e assicurare la salvezza. E questo tentativo [...] è stato il modello delle principali istituzioni della vita moderna. Tutte queste istituzioni – nel campo della medicina, del diritto, dell’istruzione, della politica e dell’economia – promettono una condizione di beatitudine, che può essere compresa solo se ci si rende conto che tale promessa fu originariamente sottoscritta dalla fede cristiana» (p. 87).
La Chiesa è responsabile di aver supportato l’avanzata dei “valori” e della loro istituzionalizzazione laddove avrebbero dovuto invece esserci la spontaneità e l’empatia del cristiano verso il suo prossimo (Illich si diffonde sul senso della parabola evangelica del buon samaritano, in grado di agire per il meglio con naturalezza, al di là dell’etica “vigente” – e anzi apertamente contro di essa). Responsabile, sì, ma non colpevole: perché non è la malafede a caratterizzare il suo operato dal Medioevo ad oggi, bensì l’incapacità di valutare appieno la portata dell’affermazione di Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36). La Chiesa non è rea di aver voluto instaurare un potere umano sulla terra (e il più grande, in quanto esteso dalla più remota delle cose del mondo al più recesso angolo di ogni coscienza), ma di non aver saputo scorgere l’ambivalenza del dirompente messaggio cristiano, che entra nella vita dell’uomo colmo di doni ma al contempo irto di pericoli: «Credo [...] che col messaggio cristiano, col Nuovo Testamento, amare l’altro, amore, sguardo e conoscenza siano diventati possibili in un orizzonte completamente nuovo. Ma esiste anche un nuovo pericolo: il tentativo di gestire, di assicurare, di garantire questo amore con la sua istituzionalizzazione, sottomettendolo a legislazione, trasformandolo in legge, e proteggendolo mediante la criminalizzazione del suo contrario» (p. 17). Con l’esercizio del potere (a fin di bene e con le migliori intenzioni: Illich non mette in discussione questo) e l’instaurazione del diritto entrano però nel mondo l’uso della forza fino alla coercizione – dal punto di vista collettivo – e il tribunale interiore della coscienza – a livello individuale, con tutto il carico di nevrosi e perversioni del religioso che ciò comporta (problema che ha suscitato analisi parallele a questa di Illich, come ad esempio quella del filosofo francese Maurice Bellet, il quale indaga la perversione del cristianesimo sul versante del rapporto tra morale e psicanalisi).
L’arricchimento della dottrina, della dogmatica, dell’istituzione in tutte le sue forme, sfocia in un impoverimento della spiritualità individuale; quell’amore che prima l’uomo poteva esprimere nella forma più ricca e creativa, sgorgante dalla coltivazione di una spiritualità basata sul rapporto personale con un Dio vivente, diventa appiattimento burocratico di un comportamento cui si richiede la mera conformità a una norma stabilita (detta “etica” o “morale cristiana”) e di conseguenza si snatura: «Se la carità fuori dell’ordinario del Samaritano viene trasformata in un dovere, in una linea di condotta, in una regola, allora non soltanto l’amore diventa legge, ma ogni fallimento, ogni inadempienza nell’esercizio della carità diventa, alla stessa stregua, un’infrazione di questa legge» (p. 22). Non è difficile rilevare la lampante fragilità di una simile impostazione: amare “per forza” non è possibile a nessuno. Chi vorrebbe essere amato da una persona che dicesse: “Ti amo, ma solo per carità cristiana”? Certamente nessuno. Perché, una volta trasformato in dovere, l’amore cessa di essere tale. Sul piano sociale, la perversione sfocia invece nella delega dell’esercizio della carità alle istituzioni pie che si prendono cura dei bisognosi, dove operano i “religiosi di professione”.
In definitiva, Illich imputa alla Chiesa di aver commesso lo stesso peccato dell’attuale società postcartesiana: quello di voler tutto controllare con i mezzi umani. Ma per il pensatore austriaco non si tratta né di una coincidenza né di un “anticipo” della Chiesa sulla scienza moderna: si tratta piuttosto dell’unico (ancorché multiforme) risultato dell’unico tradimento originario: quello di aver ristretto all’osso l’ambito della fede, dello spirito del quale “non si sa da dove venga, né dove vada”, in favore di una soffocante razionalizzazione “per il bene dell’uomo” (e per questo, come tutti i totalitarismi, tanto più paurosa), tanto brillantemente ricapitolata nel brano dell’Inquisitore di Dostoevskij.
Illich non addita dunque colpevoli, né propone soluzioni a buon mercato: egli si rifiuta di considerare chiuso il suo discorso, rifiuta anzi di considerare le stesse cose che dice come delle “risposte” (p. 104). Tenta solo di svelare l’origine e il funzionamento di un fenomeno che nemmeno riusciamo a percepire perché vi siamo immersi, e di una mutilazione che ci ritroviamo a vivere inconsapevolmente, perché immemori del passato. Il suo monito è indirizzato al recupero di un cristianesimo “al singolare”, di una dimensione filosofica (nel senso più ampio del termine) nella quale la ricerca della verità possa essere condotta “al tavolo da pranzo e non in una sala conferenze” (p. 93). Cioè tra amici, in comunione del sentire, non tra estranei che si scambiano informazioni intellettuali più o meno profonde o erudite, occupati in discorsi “che impegnano la lingua, ma non il cuore”, per dirla con il Socrate del Simposio. Perché la verità abita in quel “tra-noi” nel quale Gesù Cristo collocò niente di meno che il Regno di Dio (Lc 17,21); àmbito in cui risiede il “meglio” del cristianesimo. E niente è peggio della corruzione del meglio.
Il libro, tradotto da Aldo Serafini e curato da Fabio Milana, si presenta in una edizione raffinata con sovraccoperta, piacevole alla lettura e perfino al tatto. Al testo dell’intervista si accodano la Cronologia della vita di Illich, una illuminante Postfazione di Milana ed una accurata bibliografia. Per chi ha a cuore il pensiero di Illich, ma anche la riflessione sullo sviluppo e l’attuale condizione del cristianesimo, questo è un libro che non può mancare.
(«Filosofia.it» online, ISSN 1722-9782, novembre 2008)
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