giovedì 16 aprile 2009

Filosofia e rivoluzione: il testo, il contesto e la trama

di Raimon Panikkar


Introduzione
di Paolo Calabrò

Io non ho altra parola per quel che voglio dire, ma se adopero questa parola rischio di essere equivocato perché è polivalente, però non ne trovo un'altra. Io non giustifico la guerra, ma giustifico la guerriglia. Guerriglia non vuol dire una piccola guerra, ma significa che io, sentendomi sfruttato fino all'ultimo, resisto e faccio del mio meglio come posso: la parola è ambivalente, perché io non sono per la violenza.
Raimon Panikkar*

“Philosophy and Revolution: the Text, the Context and the Texture” è un articolo che Panikkar ha pubblicato nel luglio del 1973 sulla rivista di studi interculturali «Philosophy East and West», vol. 23, n° 3, pp. 315-322. Mai apparso in traduzione italiana, è interessante per diversi motivi. Anzitutto perché il tema della rivoluzione è stato di rado (per non dire quasi mai) affrontato da Panikkar. Ma soprattutto perché si offre qui la possibilità di chiarire il senso di quella inseparabilità tra teoria e la prassi che Panikkar ha teorizzato per tutta la vita e che, fondamento di tutta la sua filosofia, viene qui affrontato nel caso concreto di studio del binomio filosofia-rivoluzione, per di più calato nell'ambito storico-sociologico della situazione dell'India di quegli anni.
Per Panikkar «non solo ogni rivoluzione ha la sua filosofia, ma non ci può essere alcuna rivoluzione senza una filosofia che la sostenga, dimodoché se quest'ultima viene a mancare nessuna rivoluzione può aver luogo». È infatti compito della filosofia offrire ad una certa tradizione culturale degli strumenti culturali adeguati allo scopo rivoluzionario. Non è possibile esportare ideologie e filosofie (e nemmeno democrazie, potremmo aggiungere oggi) verso culture affatto diverse nei propri modi di intendere e volere la realtà. Panikkar spiega chiaramente che «la rivoluzione non è né un valore universale né un fatto umano universale. Essa è di casa all'interno di una filosofia particolare» e conclude che se una vera rivoluzione dovrà aver luogo in India, essa dovrà essere sostenuta da una filosofia adeguata e non potrà avere origine, «come molte delle moderne rivoluzioni dell'Occidente, da un'impazienza nei confronti della parousia». Non esistono universali, dunque; ma nulla esclude che una mutua fecondazione (Panikkar sottolinea spesso l'importanza dell'aggettivo rispetto al sostantivo) arricchisca entrambe le culture che entrano in reciproco contatto, nel farsi dell'armoniosa tessitura della comune trama umana. Questo è un lavoro che «è ancora da fare».

Ho curato la traduzione dall'inglese del testo e delle note, nonché le traduzioni delle note dal francese e dallo spagnolo (il testo originale è sempre riportato tra parentesi). Le note sono di Panikkar. La traduzione è stata gentilmente autorizzata dalla University of Hawai'i Press, editrice della rivista «Philosophy East and West». È possibile acquistare online l'articolo nell'originale inglese all'indirizzo http://links.jstor.org/sici?sici=0031-8221%28197307%2923%3A3%3C315%3APARTTT%3E2.0.CO%3B2-O.


Filosofia e rivoluzione: il testo, il contesto e la trama
di Raimon Panikkar

IL TESTO
Rivoluzione
La definizione che il dizionario dà di “rivoluzione” è molto ampia: si va dall’uso in matematica, astronomia e fisica ad uno meramente metaforico e spirituale. Tutti sottendono una comune metafora spaziale: un certo capovolgimento di un insieme di entità date. Rileviamo quindi, fin dall’inizio, la preminenza conferita all’esperienza dello spazio.
Ci limiteremo, comunque, all’uso oggi più comune del termine in ambito sociologico. Lì, cosa piuttosto significativa, l’accento viene posto sul fattore temporale.
I vari “testi” orali e scritti sulla rivoluzione, soprattutto quelli moderni, inquadrano la questione nell’ottica della liberazione – termine squisitamente religioso e teologico. L’obiettivo della rivoluzione è la liberazione dell’uomo. I due termini, ad ogni modo, non sono sinonimi. Due importanti restrizioni vanno rilevate: (a) il contenuto e (b) la forma della liberazione rivoluzionaria sono specifici e peculiari.
Laddove le religioni hanno a che fare con la liberazione dell’uomo – si potrebbe anche definire la religione come una via di liberazione e di salvezza – le rivoluzioni puntano solo ad un particolare tipo di liberazione. Potremmo intendere la liberazione o la salvezza in riferimento alla pienezza o al fine dell’uomo, in qualsiasi senso ciò possa venir interpretato. Questo è il motivo per cui rivoluzione e religione sono così strettamente in relazione: che si tratti di incontro o di scontro dell’una con l’altra, entrambe hanno a che fare con lo stesso centrale problema umano: la liberazione dell’uomo. La rivoluzione, quindi, è una questione teologica.
(a) I movimenti rivoluzionari intendono i contenuti della liberazione in un senso più specifico o ristretto rispetto alle religioni tradizionali. Le rivoluzioni vogliono liberare l’uomo dalle strutture oppressive, temporali o storiche e, in più, vogliono farlo senza negarle o trascenderle (come i movimenti spirituali) e senza riformarle (come certe ribellioni d’altro genere), ma modificandole radicalmente o addirittura abbattendole. Sarebbe una “metábasis eis’ āllo génos”, una estrapolazione indebita, includere nel termine rivoluzione quei cammini spirituali che predicano la liberazione dell’uomo tramite la negazione della realtà delle strutture storiche oppure tramite la fuga in un modo di vivere o in un regno astorico. Essi possono eventualmente essere la risposta alla sfida rivoluzionaria, ma non sono rivoluzioni nel vero senso della parola.
(b) Anche la specifica forma rivoluzionaria è peculiare: è quel modo di provocare il cambiamento radicale desiderato tramite l’accelerazione del tempo, modificando i ritmi “naturali”, facendo una sorta di violenza temporale allo sviluppo temporale delle cose, portando avanti la rivoluzione per mezzo di un lasso di tempo artificiale o fatto dall’uomo. Rivoluzione è più che evoluzione.
Queste considerazioni ci portano ad intendere la rivoluzione come un processo tendente a liberare l’uomo dalle strutture storiche percepite come oppressive, tramite l’abbattimento di queste strutture in un lasso di tempo guidato dall’uomo.
Possiamo subito individuare un presupposto comune a tutte le rivoluzioni: la centralità del tempo e della storia e la loro presa reale sull’essere umano. Senza questo presupposto, ogni discorso sulla rivoluzione è ozioso.

Filosofia
Possiamo scoprire quattro diversi momenti cairologici nell’autocomprensione dell’impresa filosofica. Li chiamo momenti cairologici perchè essi sono in qualche maniera temporali pur senza essere meramente cronologici.
(1) La più antica concezione della saggezza suprema, che solo successivamente comincia a chiamare se stessa “sophia” o più discretamente “filosofia”, non è nient’altro che l’aspetto intellettuale della religione, la coscienza riflessiva della natura della religione, lo sforzo consapevole di comprendere la verità (ortodossia) del cammino religioso esistenziale (ortoprassi). Il modo in cui gli uomini vivono la loro umana condizione, ecco su cosa riflette la filosofia. La filosofia è qui l’aspetto intellettuale della religione. Non sorprende quindi che filosofia e religione abbiano fatto tanta strada insieme, in collaborazione (apologetica, ancilla theologiae, ecc.) o in conflitto (la filosofia come sostituto della religione, l’illuminismo, l’età adulta dell’uomo, ecc.). Durante questo primo periodo, la filosofia è inestricabilmente legata all’intero pellegrinaggio religioso dell’uomo. È più che simbiosi; è una unica vita.
(2) La ragione, essendo lo strumento principale della filosofia, rivendica ben presto la propria indipendenza dalla religione. Essa proclama la propria estraneità alla credulità e alla superstizione umane (il suo maggior punto di forza), rivendicando pertanto il suo ruolo di scienza della verità. La filosofia paga un prezzo molto alto per la sua indipendenza. Essa deve rinunciare al regno temporale degli eventi transeunti, deve abbandonare ciò che Aristotele chiamava il singolare, Tommaso d’Aquino i contingenti (gli accidentali) e Leibniz le verités de fait, per concentrarsi sul regno intemporale delle idee immutabili, generali e necessarie. La filosofia paga la sua indipendenza dalla religione con l’esilio dal mondo temporale. Le varie scolastiche ne forniscono altrettanti adeguati esempi. La storia come regno della contingenza e dell’azione individuale viene così estromessa dagli scopi della filosofia.
(3) La filosofia recupera il suo legame alla temporalità in due fasi. La prima è la rivoluzione critica di cui Kant può essere considerato esponente: la filosofia prende coscienza dei propri presupposti e scopre che prima di poter dire una qualunque cosa circa il mondo, la “cosa in sé”, la realtà e simili, essa deve esaminare le proprie leggi, strutture, presupposti. La presunta intemporalità delle idee viene così mitigata dalla scoperta della struttura temporale della mente pensante. Questa incursione della temporalità nella mente umana diviene più evidente e pressante nella seconda fase di questo stesso periodo, in seguito al crollo del sistema hegeliano. Essa prende la forma dello storicismo filosofico e delle filosofie marxiste e post-marxiste: non solo tempo e pensiero, ma anche tempo ed essere vengono considerati indissolubilmente connessi: il fattore temporale cessa di essere visto come accidentale al pensiero umano ed anche alla stessa realtà. Arriviamo così al quarto periodo: quello secolare.
(4) Una volta che la dimensione storica è stata riguadagnata dalla filosofia, quest’ultima si riconcilia con le religioni tradizionali o diventa a sua volta religione. Abbiamo allora ideologie che svolgono il ruolo delle antiche religioni oppure l’incontro e l’abbraccio tra la religione tradizionale e la filosofia.
Possiamo a questo punto formulare la nostra ipotesi su filosofia e rivoluzione dalla prospettiva della filosofia comparata.

IL CONTESTO
Filosofia della rivoluzione
Nella misura in cui la filosofia viene considerata estranea al flusso temporale e si dedica principalmente alle verità eterne ed imperiture, o almeno necessarie, essa ha poco a che fare con la rivoluzione. Essa ha a che fare soltanto con problemi morali, ad esempio se è eticamente corretto o meno uccidere il tiranno, usare violenza, utilizzare certi mezzi per determinati fini, ecc. Il contesto della filosofia è il regno intemporale, e la rivoluzione viene considerata come qualcosa che ricade al di là della speculazione filosofica.
La filosofia, così, può venir considerata dai movimenti rivoluzionari solo come una forza reazionaria o controrivoluzionaria, perché una filosofia così intemporale non può che essere per il mantenimento dello status quo. Essa può, al più, provare a comprendere il cambiamento, una volta prodottosi e stabilizzatosi, ma mai farsene promotrice.
Solo quando la filosofia infittisce il suo intreccio con il processo temporale può interagire, per accelerare o frenare, con la rivoluzione.

La rivoluzione della filosofia
Solo nel primo, nella seconda metà del terzo e nel quarto periodo dell’evoluzione filosofica si può dire che la filosofia mantenga un legame intrinseco con la rivoluzione. Nel primo periodo la filosofia riflette gli stessi cambiamenti del complesso assetto religioso di cui fa parte – con il conseguente pericolo di oltrepassare i propri limiti e diventare uno strumento nelle mani di ogni sorta di totalitarismo.
Nel quarto periodo, che porta a compimento il terzo, la relazione tra filosofia e rivoluzione comincia ad albeggiare come ontonomica o costitutiva. La filosofia qui non è più estranea all’umana lotta, come chi guardi dall’alto gli eventi temporali della vita dell’uomo sulla terra, non si limita più a fornire giudizi morali su come le cose dovrebbero svilupparsi, ma è coinvolta nello stesso crogiolo temporale dello sviluppo storico e della consapevolezza dell’uomo. Si potrebbe parlare di rivoluzione interna allo stesso ambito filosofico, cui non sfugge neanche l’analisi linguistica, in quanto lo stesso linguaggio è intrinsecamente connesso al tempo e alla storia.
Ciò ci porta sul punto di formulare un tipo di legge circa la fase rivoluzionaria dell’umanità dalla prospettiva della filosofia comparata, che qui viene proposta come ipotesi di lavoro.

LA TRAMA
La rivoluzione come teoria filosofica
Potremmo formulare questa legge nei seguenti termini: non solo ogni rivoluzione ha la sua filosofia, ma non ci può essere alcuna rivoluzione senza una filosofia che la sostenga, dimodoché se quest’ultima viene a mancare nessuna rivoluzione può aver luogo. Una rivoluzione è destinata al fallimento se non si prendono in considerazione i vari gruppi e sottogruppi di uomini e donne ai diversi livelli della società; d’altro canto, una rivoluzione non può aver luogo se le varie strutture e sottostrutture intellettuali non possono essere espresse nei termini di una filosofia che faccia da sfondo a coloro che vi sono implicati. In altre parole, il sostegno filosofico degli obiettivi e dei mezzi di una rivoluzione appartiene alla rivoluzione stessa. La rivoluzione è, in sé, un problema filosofico; è, prima di tutto, uno sforzo filosofico e non soltanto un fatto o il concetto di un fatto che può essere, in seguito, valutato filosoficamente. La rivoluzione ha luogo prima nella mente – ma non in ogni mente. Non è un fatto puro – anche ammesso che i fatti puri fossero possibili – ma un fatto cosmo-antropologico, complesso, significativo e quindi reale, all’interno di un particolare contesto.
Viviamo oggi in una speciale trama che rende alquanto obsoleti i contesti dei diversi testi filosofici. Da un lato, gli uomini e gli argomenti delle filosofie e delle ideologie variano a seconda degli ambiti storici e geografici; in altri termini, ci sono diversi testi filosofici validi soltanto sullo sfondo dei rispettivi contesti. D’altro canto, c’è un vento di universalità, per il quale non è stata ancora trovata una formula accettata, ma che sta soffiando, in forme mitiche ed ancora timide. C’è una sottile trama che inizia a circondare i differenti contesti delle varie visioni del mondo. È questa trama ad offrire il solo sfondo possibile per la filosofia comparata. Le filosofie non sono semplicemente letture diverse o testi diversi sul mistero della realtà (tanto per usare quest’espressione), ma contesti differenti, che possono essere compresi soltanto sullo sfondo di una trama comune che sfida qualsiasi verbalizzazione. Ora, la rivoluzione non appartiene alla trama universale, ma solo al contesto di pochissime filosofie ed è parte integrante di un testo filosofico, che adesso si sforza di diventare più universale. Ciò che una volta veniva fatto nel nome di Dio, della Chiesa, della Civiltà ora viene condotto sotto il vessillo della Rivoluzione (tecnica o sociale).
Possiamo provare a chiarire questa complessa situazione tramite un esempio.
L’inadeguatezza percepita oggi da certi gruppi in India della loro idea della giustizia sociale alla situazione storica che essi osservano, li porta a convincersi che una rivoluzione come quella dell’Occidente o della Cina sia appropriata e necessaria. Essi giungono a questa convinzione perché, essendo stati esposti ad un modo di pensare alieno a quello indiano tradizionale – per il quale la stessa parola “rivoluzione” deve essere costruita artificialmente, essi sono giunti, secondo loro, ad una situazione sociale intollerabile.
La difficoltà che stanno incontrando risiede nel fatto che non ci sono strumenti filosofici nel pensiero tradizionale indiano per trattare una simile rivoluzione e che la maggior parte della popolazione dell’India, cresciuta nella cultura antica, non riesce a capire nemmeno di che si stia parlando.
Ogni filosofia “intemporale”, ogni visione del mondo monistica e panteistica, ogni cultura astorica ecc., non sarà in grado di comprendere e portare avanti la preparazione filosofica e psicologica richiesta dalla rivoluzione “necessaria”. Imporre dall’alto un modo di pensare estraneo aumenterà la confusione, ma non porterà direttamente ad una rivoluzione. Può, piuttosto, portare ad una mera resistenza reazionaria o ad una ribellione pura e semplice. La rivoluzione non è né un valore universale né un fatto umano universale. Essa è di casa all’interno di una filosofia particolare e tende a diventare un mito al di fuori del proprio contesto. Questo ci porta al nostro punto d’arrivo.

Peculiarità della rivoluzione
Il carattere morfologico di ogni atteggiamento coloniale e neocoloniale è l’ideale di un monomorfismo culturale, che sia nella forma di una sola religione, una sola chiesa, un solo re o un solo regno, una sola era tecnologica o una sola cultura mondiale, o anche una sola rivoluzione. Tuttavia questo non giustifica l’estremo opposto di una pluralità sconnessa: pluralismo non significa confusione caotica.
Se una vera rivoluzione deve aver luogo in India, per continuare con il nostro esempio, dev’esserci una filosofia che la sostenga, che conferisca la dovuta importanza allo spazio, al tempo e alla dimensione storica dell’uomo e che renda possibile all’idea paradigmatica di influire sulla realtà esterna. Ora, è compito della filosofia ed onere della filosofia comparata portare avanti una comprensione del tempo e della storia adatta ed omogenea alla tradizione delle popolazioni in questione. Un’imposizione dall’alto di concezioni del tempo e della storia come corpi estranei in una cultura altra non riuscirà a creare la comprensione e gli strumenti necessari ad una rivoluzione costruttiva. Per poter capovolgere qualcosa, è prima necessario avere un certo orientamento spaziale della trasformazione che si intende portare. La rivoluzione indiana deve essere endogena, così come le concezioni del tempo, dello spazio e della storia necessarie ad esprimere e a compiere una tale rivoluzione devono corrispondere all’esperienza della realtà temporale della popolazione dell’India. Sarà compito della filosofia sviluppare una simile concezione. Il concetto e le tecniche della rivoluzione cambieranno di conseguenza. La rivoluzione indiana non può avere origine, come molte delle moderne rivoluzioni dell’Occidente, da un’impazienza nei confronti della parousia. Bisogna cogliere una radice diversa.
Nel medesimo solco una tale impresa potrebbe demitizzare il tempo e la storia e sbarazzarsi da monopolio esercitato dal mondo occidentale moderno. Questo lavoro è ancora da fare. Qui la filosofia riguadagna il suo carattere esistenziale, pratico ed anche politico, il suo rischio ed anche la sua bellezza e vita. Potrebbe ben essere compito della filosofia comparata contribuire, scoprire, tessere, creare o comunque vogliamo dirlo, la comune trama umana, che né eliminerà i variegati testi della ragione umana né distruggerà i vari contesti dell’esperienza umana, ma presenterà a tutto il mondo l’armonia variopinta della trama umana.

(«Giornale di filosofia.net» online, ISSN 1827-5834, aprile 2008)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano