Si sente spesso dire che Illich è un pensatore “fuori dagli schemi”: un po’ come se, trovandosi a disagio, non si sapesse se parlare di lui come di un filosofo, o un sociologo, o uno storico del Medioevo; se parlarne come di un anarco-marxista o come di un teorico della società del quale un paio di libri, scritti intorno a tematiche specifiche e d’attualità, hanno avuto la fortuna di rimanere come classici contemporanei. La sua biografia itinerante e a tratti burrascosa lo rende difficile da afferrare; allora si dice “fuori dagli schemi”, e sembra che non ci sia altro da aggiungere.
Tuttavia il senso di questa etichetta (non è infatti che un’etichetta al pari delle altre, un ennesimo “schema” applicato) va chiarito. Da un lato in quanto essa, come definizione residuale, può essere applicata praticamente a qualsiasi cosa, e dunque dice ben poco della peculiarità di Illich; dall’altro in quanto rischia di tradire il vero significato della sua opera.
Perché Illich negli schemi ci stava, eccome. La sua riflessione è così inserita nel contesto in cui viveva, da indurlo a definire molti dei suoi libri “pamphlet” o addirittura discorsi polemici. Il suo pensiero segue così da vicino le vicende dell’epoca, che anni dopo – interrogato sul contenuto di certi suoi libri – risponde che preferisce non parlarne più, poiché essi hanno un sapore troppo contingente e legato ai fatti che li hanno originati: «Questa è la singolare esperienza che mi trovo a vivere: tu mi poni domande su un uomo che non esiste più. Certo, quello sono io, me ne assumo la piena responsabilità. Scrivevo quei libri come risposta a una determinata situazione. [...] Ma sono morti, appartengono ad un altro periodo» (p. 77).
Il libro qui presentato è la trascrizione della lunga intervista radiofonica rilasciata a David Cayley (solo per amicizia, p. 19; Illich si era rifiutato di concedere qualunque intervista nei precedenti quindici anni) andata in onda a puntate, negli Stati Uniti, tra il 1989 e il 1990.
L’intervista è spesso la via più breve per avvicinarsi al pensiero di un autore. Questo libro non delude le aspettative. Il contenuto è chiaro e può essere affrontato anche dai non specialisti; la mancanza di approfondimento (ciò su cui l’intervista, come genere, segna ovviamente il passo rispetto al saggio) è compensata dalla sinteticità della spiegazione (il dettaglio va dunque cercato altrove; ma l’essenziale, lo si carpisce subito). La lettura è densa ma scorrevole: merito certamente dello stile accattivante di Illich, altalena continua tra la teoria, l’esempio, l’aneddoto, l’esperienza personale; ma anche di Cayley, che sa essere opportuno nell’intervenire come nel farsi da parte, competente e puntuale ma mai invadente.
Ne vien fuori un affresco in cui l’aspetto biografico e quello speculativo risultano, per così dire, cementati: così è possibile seguire il vissuto di un uomo che ha maturato la sua riflessione a cavallo tra l’Europa e l’America, un austriaco che ha insegnato nelle più prestigiose università dell’Occidente come nei barrios portoricani, un prete amico di Jacques Maritain e di Helder Camara, che qualcuno (forse esagerando, ma non molto) si è spinto a definire il più grande pensatore del XX secolo; allo stesso modo emerge una trattazione piuttosto completa, anche se non sistematica, dei temi fondamentali della sua filosofia: l’elitarismo dell’istruzione, la deformazione degli strumenti, l’energia, la storia medievale, le distinzioni cruciali tra bene e valore, tra bisogno e fabbisogno, tra genere e sesso, ecc. Qui il pensiero (che si pretende sempre in massima misura “oggettivo”) è inseparabile dalla persona (il “soggetto”); ciò che vale per chiunque, ma che in Illich è ancora più evidente, come del resto lui è il primo a rilevare: «Convivo con il rifiuto non solo di dire certe cose, ma anche di utilizzare certe parole o di consentire a taluni sentimenti di insinuarsi nel mio cuore. Non posso permettermi di meditare sulla bomba atomica senza soccombere. La riflessione su certe cose che diamo per scontate vuol dire, a mio avviso, accettare l’autodistruzione. Accettare che i nostri cuori si logorino» (p. 82).
Questo libro è un ottimo invito al suo pensiero; l’edizione è ben curata e la prefazione di Franco La Cecla è preziosa per orientarsi nel labirintico universo della pubblicazione di Illich in Italia. Un testo che offre un “Illich senza filtri”, dove si può anche trovare un brano del genere: «Ho lavorato insegnando storia. Alcuni sostenevano che ne facessi uso, come se si trattasse di una droga. Io rispondevo di no, che stavo coltivando stati disciplinati di consapevolezza alterata» (p. 88). Non è il linguaggio che ci si aspetterebbe da un critico di Cartesio e di Comenio, ma tant’è. Al suo stile Illich non rinuncia: egli ha sempre preferito mantenere un «silenzio inorridito» piuttosto che scadere in una «volgarità apocalittica» (pp. 82-84). Il silenzio è ciò che ha scelto, ad esempio, nel 1967, rinunciando ai voti presi presso la Chiesa cattolica di Roma. A volte ha cercato di «seppellire le menzogne sotto una risata» (p. 59), come quando abbandonò il Concilio Vaticano II consegnando a un prelato una vignetta sarcastica sul tema della bomba atomica. Del resto Illich ha sempre pagato di persona, anche con la violenza fisica, le sue scelte radicali. L’integrazione genuina, oltre ogni coerenza fittizia, tra la sua teoria e la prassi della sua vita (ed insieme l’equilibrio e la capacità di “fare un’eccezione” ove opportuno, come nel caso di questa intervista) fanno di Ivan Illich un testimone, prima che un pensatore. Forse il destino dell’uomo è quello di essere, in eterno, Davide contro Golia; non di meno la sua grandezza risiede proprio nell’opposizione strenua e sempre rinnovata. L’uomo non ha il potere di fugare le tenebre; ma neanche la tenebra più fitta può impedirgli di essere «fiammella». Ivan Illich lo è stato.
(«Filosofia.it» online, ISSN 1722-9782, settembre 2008)
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