giovedì 16 aprile 2009
B. Groys, Post scriptum comunista, ed. Meltemi, 2008
Come mai un dittatore totalitario quale Stalin si diede la briga – poco prima di morire – di pubblicare in tutta fretta degli scritti sulla linguistica? Scelta quanto meno singolare, da parte di un capo di Stato, che costituisce il punto di partenza di questo saggio di Boris Groys, appena edito nella collana ‘Melusine’ dell’editore Meltemi, dalla grafica originale e accattivante. Con il termine ‘comunismo’ si intende di solito quell’insieme di dottrine più o meno facenti capo a Marx e ispirate alla comunanza dei beni e dei mezzi di produzione; ovvero, si intende l’esperienza politica di certi Stati che hanno inteso mettere in pratica tali dottrine, come ad esempio l’ex Unione sovietica (in questi casi, generalmente, si aggiunge a ‘comunismo’ l’aggettivo ‘reale’). A tali consolidate concezioni Groys aggiunge la caratterizzazione del comunismo come ‘svolta linguistica’ nella prassi sociale, ciò su cui si concentra l’intero studio.
Poiché il ‘medium’ della politica è il linguaggio (la politica agisce infatti secondo programmi, proclami, discussioni, deliberazioni, ecc.), la critica al comunismo può esprimersi nel suo stesso medium: in questo modo esso riesce a realizzare
la vera parità sociale fra tutti i cittadini dello Stato, in quanto ciascuno ha il diritto e la possibilità (anche se subalterna, o di fatto inefficace) di esprimersi sul piano politico e di partecipare così con il proprio, anche piccolo, contributo al processo sociale.
Nel capitalismo, viceversa, dove il denaro è il motore degli eventi economici, e dunque politici – la disuguaglianza nel possesso di denaro genera disuguaglianza sociale, fino all’esclusione di alcuni e addirittura alla morte per fame di altri; il processo politico si muove dunque tramite un medium diverso da quello della sua critica (cioè, ancora una volta, il linguaggio). In quanto il medium del capitalismo è il denaro e non il linguaggio, gli eventi economici sono ciechi e privi di senso (relativamente alla vita e al destino dell’uomo e della società).
Al contrario, nel comunismo (dove l’economia è subordinata alla politica) il destino dell’uomo diventa dichiarato, indirizzato, progettato e infine realizzato. In questo il comunismo ritiene di cogliere la vera essenza della democrazia, mentre la democrazia di stampo liberale è una contraddizione in termini che si trova continuamente a subordinare la volontà popolare agli interessi del mercato. Per fare un esempio del legame esistente nel comunismo tra il progetto teorico e la sua realizzazione pratica (che Hannah Arendt riportò nel suo Le origini del totalitarismo, anche se con altro scopo), quando Stalin diceva che la borghesia era una classe in via d’estinzione, significava che stava preparando il massacro dei kulaki. Groys non dà giudizi di merito su singoli episodi storici (sulla questione della violenza insita nella pretesa di progettare la società ‘così come dovrebbe essere’, e quindi sul legame tra lo schema evolutivo-rivoluzionario e lo sterminio, si sofferma invece l’acuta prefazione di Gianluca Bonaiuti); egli punta semplicemente a caratterizzare il fondamento della sua categoria principale, fin qui preannunciata, la verbalizzazione della società: “Solo quando il destino non è più muto e non domina solo sul piano strettamente economico, ma al contrario viene formulato fin dall’inizio a livello linguistico e deciso a livello politico – come nel caso del comunismo –, allora l’uomo diviene un essere che esiste nel linguaggio e per mezzo del linguaggio. L’uomo ottiene così la possibilità di argomentare, protestare e sollevarsi contro decisioni fatali. Tali argomentazioni e tali proteste non si dimostrano sempre efficaci. Vengono spesso ignorate o addirittura represse, ma non sono in quanto tali prive di significato” (pp. 24-25).
Secondo Groys, la perplessità per la quale il solo linguaggio sarebbe di per sé insufficiente a governare, a creare cioè la necessaria obbligazione tra chi formula le leggi e chi è tenuto ad osservarle, è lo specchio della condizione politica attuale, nella quale il linguaggio è di fatto impotente. Groys dedica tutto il secondo capitolo all’analisi del logos e della sua forza obbligante, a partire dalla critica alla sofistica di Socrate e Platone. Ma, soprattutto, istituisce un’interessante (ancorché discutibile, come forse un po’ tutta la sua interpretazione della filosofia platonica) rilettura delle posizioni sofistiche e socratiche alla luce della dialettica hegeliana: “Il discorso sofistico appare [...] coerente soltanto perché è unilaterale, perché si isola dal tutto, perché maschera il suo rapporto paradossale con il tutto del linguaggio. Il sofista svolge la sua difesa di una posizione particolare anche quando sa che ci sono molti argomenti anche in favore della posizione opposta” (p. 35). Così il sofista opera nell’interesse esclusivo di sé e dei propri clienti, mostrando in tal modo la propria affinità con il capitalista dei nostri giorni, che Groys così descrive, lasciandosi prendere un po’ la mano: “De facto i discorsi sofistici che appaiono razionali sono ora come sempre al servizio di interessi particolari e del mercato. [...] Non c’è nessun dominio totale della ragione [...] Per avere successo nel mercato non si ha notoriamente bisogno di calcoli, di freddi costrutti logici, né di riflessioni razionali, ma di intuizione, ossessività, aggressività e di istinto da killer” (p. 40). Al contrario della sofistica (di ieri come di oggi), il ‘materialismo dialettico’, su cui il potere comunista si basa, non perde mai di vista il tutto della realtà, cioè il persistente rapporto dialettico tra ogni cosa e il suo ineliminabile contesto. In questo, afferma Groys, ogni governo comunista ha visto se stesso come unico governo veramente razionale, capace di ‘prendersi cura del tutto’ (secondo l’antico monito di Periandro di Corinto), e di svelare così la contraddizione interna a quel realismo logico che, tradotto in termini politici, significa solo la determinazione a operare in vista di interessi particolari.
Ciò dunque (e non i singoli obiettivi politici, realizzati o meno), secondo l’autore, costituisce l’essenza del comunismo e lo differenzia non solo dalla democrazia liberale, ma anche dai fascismi: essi infatti, anche quando si pretendono totalitari, non sono mai abbastanza ‘totali’, perché il primato di una razza o di un partito resta pur sempre qualcosa di parziale, di non universale, anche se elevato a legge di natura. Il comunismo è invece, in quest’ottica, l’unico governo veramente totale, governo del tutto da parte di chi sa abbracciare l’orizzonte del tutto, ciò che consente a Groys di avvicinare questo modello a quello platonico, e di definire il comunismo come tentativo di “instaurare un governo dei filosofi” (p. 44); la differenza tra questi due modelli è soltanto che, nello Stato comunista, tutti i cittadini sono tenuti ad essere filosofi, e non solo i governanti (p. 64).
Ora, se il motore del processo politico è il materialismo dialettico, il quale ritiene che la vita sia in sé contraddittoria (p. 49) e che la realtà sia in sé paradossale (p. 46), l’azione politica non potrà che essere a sua volta contraddittoria: si troverà cioè a perseguire fini reciprocamente contraddittori, la cui coerenza potrà essere svelata solo da una prospettiva ‘superiore’ (illuminante in proposito il resoconto del comportamento tenuto nel 1908 dall’ala sinistra della socialdemocrazia russa nei confronti del regime zarista, p. 47). Che tale posizione possa condurre nella pratica a giustificare ogni sorta di nefandezze, è l’autore stesso a sottolinearlo, facendo notare che questa (giusta) critica risale almeno al 1984 (oggi sessantenne) di George Orwell. Ma, come già detto, non è questo il punto di Groys, al quale preme piuttosto sottolineare – ma, sia chiaro una volta per tutte, non in chiave apologetica – quanto i membri del Partito comunista di ogni tempo e luogo abbiano sentito il filosofare come un proprio preciso dovere. Ciò che l’autore esemplifica mostrando il legame tra la svolta linguistica operata dalla rivoluzione russa e gli scritti di Stalin, appunto, sulla linguistica. I quali sono significativamente redatti in forma di ‘dialogo platonico’, cioè come sequenza di risposte a domande formulate da interlocutori diversi. Groys rimarca la centralità di questi scritti nell’ambito dell’intera operazione e rivoluzionaria: “C’è una cosa [...] che emerge chiaramente dalla lettura di questa particolare testimonianza della vita interiore di un leader politico: Stalin aveva tanta fretta da pubblicare subito considerazioni incompiute, frammentarie e provvisorie, perché aveva la sensazione di essersi imbattuto in qualcosa di estremamente importante, di cui il mondo non doveva restare all’oscuro nemmeno per un minuto” (p. 57). Il testo sulla linguistica doveva avere il compito preciso di introdurre la contraddizione quale suprema regola della logica (p. 61), di impostare la contraddizione come fondamento del retto pensare e del retto agire. In questo senso, un agire contraddittorio non è sintomo di schizofrenia o indecisione, bensì di capacità di abbracciare un orizzonte non parziale. Da questo punto di vista Groys non vede affatto una rottura nel passaggio dell’Unione sovietica dal comunismo al capitalismo (sul piano economico), bensì una ‘continuità dialettica’ in incessante evoluzione (pp. 81 ss.). Dallo stato di salute dei regimi russo e cinese egli deduce che l’albero del comunismo – tuttora in crescita – ha ancora altri frutti, nuovi e inattesi, da portare: il comunismo, ci dice Groys, è tutt’altro che morto.
(«ReF-recensionifilosofiche.it» online, ISSN 1826-4654, n° 36, febbraio 2009)
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