L’atmosfera naturalmente silenziosa del bosco contribuisce a rendere la scena del crimine ancora più inquietante. Anche se, di fatto, nessuno sa ancora con certezza se si tratti davvero d’un crimine: il proiettile mortale è certamente partito dal fucile di Fabrizio Sangermano, uomo di buona famiglia; ma lui continua a sostenere che si sia trattato di un incidente, terribile, certo, ma pur sempre un incidente. È scivolato, dice, e la pallottola fatale è partita in maniera casuale e infallibile. Tuttavia, i conti non tornano: l’esperto balistico, accorso sul posto, sostiene che la traiettoria mortale non è compatibile con la versione fornita, perché il colpo ha attraversato la vittima orizzontalmente, come da una posizione di tiro ideale, e non dal basso verso l’alto, come la descrizione dell’uomo farebbe pensare. E poi c’è la questione del silenziatore: perché applicarlo a un fucile da caccia? Dice che serve a non far mettere in allarme tutti gli uccelli, in seguito a un colpo mancato; ma questo non lo rende meno strano. I giornali, intanto, hanno già “risolto” il caso a modo loro: si è trattato di una tragica fatalità, e la reputazione del casato Sangermano è salva...
Con Una spirale di nebbia Michele Prisco, autore della provincia di Napoli, vinse il Premio Strega 1966 (anno in cui il romanzo ricevette ben dieci edizioni nei primi cinque mesi, quattro nel solo agosto); poco più di dieci anni dopo - era il 1978 - Eriprando Visconti portò la storia sul grande schermo, con una giovanissima Eleonora Giorgi. Un “thriller psicologico”, com’è stato definito, che ha molto del secondo termine, meno del primo (soprattutto a paragone con il thriller moderno ad alta tensione), nel quale l’esplorazione delle menti dei protagonisti ai limiti dell’egotismo (a volte oltre) prende il sopravvento sul ritmo e sulla linearità di una trama che viene continuamente richiamata su sentieri altri da ricordi, considerazioni, osservazioni, appunti (e il lettore si imbatte spesso in forme desuete come “nailon” e “cellofane”). Il segnalibro dedicato stampato da Rizzoli sottolinea il rinnovamento nella narrativa di Prisco (che all’epoca aveva già pubblicato sei romanzi, con i quali aveva vinto un Premio Venezia e un Premio Napoli) e la “maturità d’un narratore che continua il suo discorso obbedendo solo al richiamo della sua voce interiore”. Punto di forza che finisce per sacrificare la leggibilità in favore della complessità dell’intreccio.
(«Mangialibri», 3 dicembre 2018)
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