Gennaio 1947. L’attore Charlie Grice è morto e, dei tanti che conosceva in vita - che si tratti dei buoni amici addolorati o dei molti nemici sotto sotto trionfanti - al funerale non manca nessuno. A questo suo ultimo spettacolo si registra il tutto esaurito, al punto che molti non ce la fanno nemmeno a entrare in chiesa per dargli l’estremo saluto. Sua figlia, Vera, a sua volta attrice è affranta, in occhiali scuri, avvolta nel suo cappotto nero di pelliccia, e si regge tutto il tempo al braccio della madre, Joan Grice, anche lei in nero e con il velo. La signora Grice, direttrice di un guardaroba di costumi di scena - una delle migliori di Londra - conosce quasi tutti i presenti, anche quelli che con il teatro non hanno mai avuto niente a che fare (si sa, d’altro canto, che Gricey, suo marito, aveva frequentato gente d’ogni risma, criminali compresi). La cerimonia è struggente e il gelo di quell’inverno da cani - che non ha scoraggiato i convenuti - penetra fin dentro le ossa. Ben presto, tuttavia, Joan si rende conto suo malgrado che starsene al caldo, a casa, in compagnia di Julius Gass - ex impresario e marito di sua figlia, che lei ha sempre mal sopportato e la cui presenza le riesce adesso intollerabile - può essere ancora peggio. Tanto da amare quei momenti imprevedibili e struggenti in cui lui torna a farle visita…
Patrick McGrath, brillante autore britannico che vive tra Londra e New York (del quale abbiamo già più volte parlato su queste pagine: qui le sue recensioni http://www.mangialibri.com/autori/patrick-mcgrath e qui l’intervista esclusiva) dà alle stampe un libro scritto magistralmente, per lo stile e per il climax, certo, ma soprattutto per la capacità di tirar fuori la suspense più affilata da insospettabili recessi della normalità. Stupendo il tratteggio della protagonista, la quale sembra vivere non una doppia, ma addirittura una tripla esistenza: la prima, di ex moglie madre e suocera da un lato, quello che tutti vedono e dove ognuno si sente in diritto e in dovere di elargire consigli e suggerire orientamenti; la seconda, quella di donna ancora legata al marito, nonostante le sue tante defezioni - a cominciare dalle ripetute scappatelle - nella quale è difficile dire se si rifugi o venga risucchiata, dato che quella voce (è innegabile, è proprio quella del suo Gricey!) si fa presente all’improvviso e la richiama, soprattutto quando mette le mani nell’ampissimo guardaroba di Charlie; la terza, nella quale ogni cosa che accade passa sotto la lente della guardarobiera che lei è sempre stata e rimarrà per sempre, dove l’abito fa il monaco eccome, ogni persona è strettamente legata a ciò che indossa e tutta la vita è mediata dal rapporto con gli abiti. Cosa, quest’ultima, che occupa la sua mente prima e al di là di ogni altra considerazione: «Quando tornò a casa non si scolò un altro bicchiere, ma nemmeno andò a dormire. Si dedicò invece a un lavoro che desiderava finire ormai da settimane: intendeva fare delle modifiche al cappotto di Gricey, non le piaceva come le cascava. Sentiva Gricey vicino, ne percepiva l’odore nella fodera, voleva però indossare quel cappotto come se fosse suo». Tornano le tematiche tipiche di altri grandi romanzi dell’autore, l’apparente psicosi mal celata e impossibile tanto da diagnosticare quanto da curare, e al contempo il sospetto continuo che il paranormale - comunque lo si voglia intendere - sia a portata di mano solo a volerne scorgere la presenza. La guardarobiera è un masterpiece che conferma il genio di McGrath ai livelli del suo più celebre Follia.
P. McGrath, La guardarobiera, ed. La nave di Teseo, 2017.
(«Mangialibri», 12 gennaio 2018)
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