«Come potrei rifiutare una prefazione ad un amico? Scuse e giustificazioni sono un’infinità: molti altri obblighi, scadenze con le quali fare i conti, un altro impegno precedente, la disciplina di vita e di pensiero e forse l’inopportunità di porre la prefazione ad un libro che tratta del proprio lavoro… Se cedo alla richiesta di un amico, non è naturalmente perché desideri dimostrare la mia amicizia o farmi dei meriti. È perché il desiderio dell’amico mi fa prendere coscienza dell’importanza dell’amicizia». Così scrive Raimon Panikkar, filosofo indo-catalano scomparso nel 2010, in apertura del volume Pluralismo e armonia (ed. L’Altrapagina, 1990; n. ed. L’Altrapagina-Cittadella, 2011), di Achille Rossi (l’amico di cui parla Panikkar). Il quale — dopo aver offerto nel precedente Riflessi (ed. L’Altrapagina, 2012) i ricordi di un’amicizia vissuta attraverso i decenni e i continenti — presenta oggi, nel suo ultimo Un percorso condiviso (ed. L’Altrapagina, 2015) le lettere scambiate con Panikkar in quasi venticinque anni di corrispondenza.
I due si erano conosciuti nel 1978, ad Assisi, nell’ambito di un convegno interreligioso; ma solo nel 1984 cominciano a scriversi. Regolarmente. Anzi, intensamente. Soprattutto per quanto riguarda i contenuti: nel leggere le tante lettere riportate in questo volume denso (pur non avendone l’apparenza), si nota come il tenore dello scambio non sia mai soltanto personale od operativo: quasi sempre la filosofia, la teologia, la psicologia fanno capolino tra le considerazioni sparse e propongono (quando non impongono) delle riflessioni che andranno avanti nel tempo, attraverso i libri pubblicati insieme, i convegni al Teatro degli Illuminati di Città di Castello, le lettere e le telefonate successive. Ne è esempio uno degli argomenti ricorrenti: il pensiero del teologo francese Maurice Bellet, che Rossi sovente “mette sul piatto” e cui Panikkar non si sottrae, chiamandolo qui “il nostro Bellet” (quando qualcosa lo entusiasma), lì “il tuo Bellet” (quando qualcosa, viceversa, gli fa storcere il naso). Pensatore con cui Panikkar ha sempre avuto un rapporto conflittuale, riconoscendogli da un lato che «la sua interpretazione del cristianesimo è eccellente! Nel cristianesimo è grande!» (corsivi nell’originale), dall’altro contestandogli di essere troppo psicologico, troppo metafisico. Il motivo fondamentale della critica, tuttavia, è la mancanza nella speculazione di Bellet della dimensione interculturale (ciò che imputa anche a Cacciari; il quale però viene da lui preferito, quale interlocutore filosofico, al francese). Eppure sono tante le somiglianze tra Panikkar e Bellet, disseminate nei tanti testi pubblicati. Dalle lettere di Panikkar qui pubblicate emerge il seguente passaggio: «Quello che fai con i tuoi ragazzi è la vera Chiesa. E tutto questo, che tu fai, non ha bisogno di una ideologia giustificante — e dunque toglie la base di ogni possibile angoscia». Che riporta istintivamente al belletiano: «Il fondo dell’angoscia consiste nel non potersi fidare, dove invece l’uomo deve necessariamente aver fiducia. Per questo l’ansioso è, senza saperlo, il critico assoluto dello scettico. Egli testimonia che lo scettico si fida. Altrimenti, cadrebbe nel vuoto».
L’altro grande protagonista di questo carteggio è Ernesto Balducci: di cui Panikkar era entusiasta e non perdeva occasione per dirne tutto il bene possibile, da «indimenticabile» a «persona ottima». Qui si riporta non solo una sua lettera al padre dell’“uomo planetario” in cui si parla di pace, disarmo e dell’eventualità di pubblicare un libro sull’argomento, ma anche il testo integrale della lettera postuma al grande prete toscano, venuto a mancare nel ’92, cui Panikkar si rivolge dicendo: «Nella memoria storica dalla quale tu parli mi sei vivo e molto vivo». D’altro canto, se pur non si può dire che per Panikkar valesse l’aristotelico “L’amicizia è importante, ma la verità lo è di più” (tutt’al più il contrario), non di meno la verità non veniva offuscata dall’amicizia, e lui non nasconde la propria perplessità teoretica nei confronti della presa di posizione del suo fraterno e stimato amico: «Sono stupito dalla reazione del Balducci. Paragona Assisi a Betlemme, è vittima dei mass-media, distrugge l’interiorità, fa della religione uno “show”, distrugge il Corpo Mistico di Cristo, è “mondo” nel senso giovanneo (di satanico) e via dicendo…» Di passaggio, si accenna anche al convegno di Firenze, cui Ludovico Grassi l’aveva invitato; invito che Panikkar — tra le mille cose — non accolse. Non mancano, d’altronde, in mezzo ai “grandi”, i saluti, i pensieri, gli auguri, per coloro che — vicini a don Achille — aveva avuto l’occasione di incontrare: suo fratello Enzo, don Paolino (che da sempre, e ancora oggi, condivide la residenza con Rossi), Stefania (responsabile storica della segreteria della casa editrice l’Altrapagina e dell’omonimo mensile).
In queste lettere scorre la sua critica alla scienza («Tu veramente pensi che la scoperta della catena del RNA sia così “importante”? Si può vivere in questa attesa di sempre una maggiore scoperta? Sempre aspettando Godot? Dipende la nostra vita dall’ultima scoperta dell’ultimo scienziato? Allora capisco che le cliniche degli psichiatri siano piene e i congressi di psicologia siano di moda»), fino a dire che è «perversa», e alla tecnologia (cui dichiara apertamente di essere “contro”, nonostante il proposito — mantenuto nelle opere — di “non essere contro niente”: «È la visione del mondo tecnocratico che ci toglie la gioia, la creatività, l’umanità e allora subentra la desolazione […] Perciò ce l’ho contro la tecnologia»). C’è la politica, tema poco trattato nei testi, qui in riferimento sia al potere in generale, in relazione al modo di intendere la vita, sia alla politica italiana in particolare, con più di un passaggio esplicito perfino su Berlusconi. C’è un inedito Ratzinger non ancora papa, che gli scrive con “gentilezza e commozione”; e qualche curiosità d’interesse (come il termine “megamacchina”, reso celebre da Serge Latouche con il suo La Mégamachine. Raison technoscientifique, raison économique et mythe du progrès, — mentre lo stesso termine già figura in una lettera di Panikkar del 1993).
Ma scorrono anche i meno teoretici — non meno pregnanti — eventi della vita: gli infarti e il bypass; il matrimonio civile, l’adozione dei due figli e i problemi con la Chiesa (senza voyeurismi né pettegolezzi); il Premio Nonino “a un maestro del nostro tempo” e le lauree honoris causa a Bergamo e a Urbino; la collaborazione, sempre più stretta e fruttuosa, con Milena Carrara Pavan (almeno fin dal 1991), che sarà tra l’altro la curatrice della sua Opera Omnia in tutte le lingue. E, di nuovo, e ovviamente, l’amicizia che origina e innerva questo racconto: quell’amicizia, che qui scopriamo, è “il suo debole”; che spingeva Panikkar e Rossi a lavorare insieme, ciascuno accusando l’altro (benevolmente) di star facendolo lavorare troppo (Rossi lo chiamava scherzosamente “negriero”; lui lo riprendeva storpiandone il nome: “Aquilo!”). Amicizia nella quale Rossi godeva di un «invito permanente a Tavertet» (corsivo nel testo), quel paesino di 80 anime nel cuore della Catalogna dove Panikkar aveva scelto di vivere quando non viaggiava in ogni parte della terra.
Rossi ha scelto di scrivere un libro in cui gli eventi e le lettere che li scandiscono vengono raggruppati cronologicamente: eppure la sequenza mantiene una mirabile armonia tematica e di senso. Sceglie anche di non correggere in nessun modo le stesure originali di Panikkar (anche qui il ricordo dell’amico è superiore alle esigenze dell’ortografia): per cui assistiamo a frasi come «Possibilmente non mi spiego»; «Ciò porta all’affrontamento con se stesso»; «Veramente questa esperienza ci soluziona tutti i problemi». Il volume è impreziosito da un apparato fotografico a colori di otto pagine, e da una enorme quantità di lettere riprodotte in versione autografa; rivolto non solo agli studiosi e agli appassionati di Panikkar, ma anche a tutti coloro che, in qualche modo, siano incuriositi dalla figura di un pensatore che faceva della Vita e della Relazione il cardine di ogni filosofia. Non si può chiudere che con il suo saluto tipico (che qui troviamo a pag. 60): non alla prossima volta (come se questa non fosse stata abbastanza “piena” da non richiedere una promessa ulteriore), ma all’eternità di un momento vissuto in maniera indescrivibilmente profonda e in un certo senso “definitiva”. A sempre, Raimon.
(«Quaderni della Fondazione Balducci», n. 30, 2015)
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