Che cos’è il maestro? In cosa consiste la sua peculiare “maestria”? E dove risiede? In che maniera si esplica attraverso la relazione con l’allievo? Cosa rimane di tutto ciò quando il maestro cessa di essere presente? Forse il ringraziamento dell’allievo, ultimo depositario di quell’insegnamento? E se l’allievo non volesse ringraziare? Ma poi davvero - in qualche modo, in qualche forma, in qualche misura - si può decidere di non esser grati al proprio maestro, una volta riconosciuto tale? Domande destinate a rimanere senza risposta, o meglio: senza una risposta esaustiva, o peggio definitiva. Perché da un lato solo la relazionalità (al di là di qualunque concetto) può dare conto di quella che è eminentemente una relazione, fin dal (e nel) suo fondamento; dall’altro, rispondere è sempre - anche nella tensione verso un’approssimazione infinita - dare una risposta. Che fare, allora: rinunciare alla domanda? Certo che no. Ma una rinuncia va accettata: quella a catturare l’essenza della cosa, in favore di un “afferrarla” nelle schegge di frammentazioni successive...
Sulle tracce degli studi vedici di Malamoud, Derrida si cimenta - in questo testo apparso in Francia, presso la rivista «Le Genre humain», nel 2002, due anni prima della morte del filosofo - in una sorta di esercizio di stile che impone alle parole, alle idee e ai concetti il sottoporsi ad una “scarnificante” ermeneutica al fine di distillarne gocce di autenticità e di senso; lavoro incessante di spoliazione - al limite del gioco di parole enigmistico - finalizzato non a un confluire dei significati ma, al contrario, a un defluire delle interpretazioni. Difficile dire quanto il tentativo sia riuscito, in questo testo che può ben dirsi arduo e connotato da uno stile che non facilita il lavoro del lettore. In fondo, per Derrida, quello che conta non è l’agevolezza dell’esposizione ma l’adeguamento dello scritto all’intento filosofico, che è quello appunto di eccedere nell’analisi, onde mostrare che la cosa è sempre al di là della presa, in un “supplemento d’infinito” che la rende riconoscibile rispetto a ciò che invece costituisce un mero oggetto dell’intelletto. Condotto alle estreme conseguenze, questo processo può forse non approdare a nessuna conclusione analiticamente riconoscibile; l’unico a poter giovarsene è il metodo (non a caso Descartes e il suo discorso figurano in apertura del breve saggio). Finora inedito in Italia, questo libro è rivolto a un pubblico specialistico. Si segnala, infine, l’ampia ed esplicativa introduzione del curatore, Silvano Facioni.
Jacques Derrida, Il maestro o il supplemento di infinito, ed. Il melangolo, 2015.
(«Mangialibri», 8 gennaio 2016)
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