
Sulle tracce degli studi vedici di Malamoud, Derrida si cimenta - in questo testo apparso in Francia, presso la rivista «Le Genre humain», nel 2002, due anni prima della morte del filosofo - in una sorta di esercizio di stile che impone alle parole, alle idee e ai concetti il sottoporsi ad una “scarnificante” ermeneutica al fine di distillarne gocce di autenticità e di senso; lavoro incessante di spoliazione - al limite del gioco di parole enigmistico - finalizzato non a un confluire dei significati ma, al contrario, a un defluire delle interpretazioni. Difficile dire quanto il tentativo sia riuscito, in questo testo che può ben dirsi arduo e connotato da uno stile che non facilita il lavoro del lettore. In fondo, per Derrida, quello che conta non è l’agevolezza dell’esposizione ma l’adeguamento dello scritto all’intento filosofico, che è quello appunto di eccedere nell’analisi, onde mostrare che la cosa è sempre al di là della presa, in un “supplemento d’infinito” che la rende riconoscibile rispetto a ciò che invece costituisce un mero oggetto dell’intelletto. Condotto alle estreme conseguenze, questo processo può forse non approdare a nessuna conclusione analiticamente riconoscibile; l’unico a poter giovarsene è il metodo (non a caso Descartes e il suo discorso figurano in apertura del breve saggio). Finora inedito in Italia, questo libro è rivolto a un pubblico specialistico. Si segnala, infine, l’ampia ed esplicativa introduzione del curatore, Silvano Facioni.
Jacques Derrida, Il maestro o il supplemento di infinito, ed. Il melangolo, 2015.
(«Mangialibri», 8 gennaio 2016)
