Alla psicanalisi si fa resistenza. Si resiste dall’esterno a questa scienza/non scienza dallo statuto ambiguo e dalle pretese preoccupanti (insomma: non dovrei avere io l’ultima parola su me stesso? Cioè: non dovrebbe averla il mio “Io”?); e si resiste dall’interno, in un ressa di teorie inconfutate e in buona parte incompatibili fra loro, ancora lontane dal trovare un accordo sui principi metodologici e perfino sugli obiettivi - nessuno ancora sa cosa sia la normalità o lo stato di buona salute mentale del paziente: la sua capacità di tornare al lavoro? La soppressione degli impulsi suicidi? Ma forse la più originaria e ferrea resistenza
non viene né dal di dentro né dal di fuori, bensì dall’alto: si dovrebbe cedere a una dottrina che si dice razionale proprio nello stesso momento in cui aspira a rivelare che il pensiero cosciente dell’uomo “non è padrone a casa sua”?
Jacques Derrida, gigante della decostruzione in filosofia, riflette su queste questioni tanto problematiche quanto fondate, partendo dalla domanda: Se è vero, come è vero, che alla psicanalisi si vuole fare resistenza, è altrettanto vero che si dovrebbe? E spiega - assumendo al riguardo la chiara posizione di “amico della psicanalisi” - che la psicanalisi non va né accantonata con una scrollatina di spalle - come se fosse ormai roba del passato, soppiantata da un sapere scientifico più autorevole, consolidato e oggettivo (ma in fin dei conti solo più rassicurante) - né semplicemente riformata: essa va ripensata alla radice nelle sue istanze fondanti, e integrata nel sapere filosofico e nel più generale contesto della conoscenza. Questo libro è il testo dell’intervento tenuto dall’autore alla Sorbona nel 1991, nell’ambito del Convegno dal titolo “La nozione di analisi”, offerto qui nella traduzione di Michele Di Bartolo, in un bella edizione Orthotes, economica ma elegante.
J. Derrida, Resistenze. Sul concetto di analisi, ed. Orthotes, 2014, pp. 120, euro 12.
(«Filosofia e nuovi sentieri», 1 ottobre 2014)
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