La sera un bambino ascolta per caso la conversazione dei genitori. Li sente dire: “È spaventoso! È il crollo di tutto! È la fine del mondo!” Di conseguenza va a letto spaventato e non riesce ad addormentarsi. Tanto che, al mattino, non ha il coraggio di affacciarsi alla finestra per timore di vedere la catastrofe coi propri occhi. Tuttavia si alza, solleva le tende e timidamente guarda fuori: tutto è come prima, il cielo, le strade, le cose di sempre.
Ecco in che modo - ci racconta Maurice Bellet nel suo ultimo L’avenir du communisme, ed. Bayard, al momento disponibile solo in francese - il bambino fa la scoperta dell’economia: quella cosa che non esiste - non la si vede proprio da nessuna parte - ma è in grado di gettare gli adulti nello sconforto più completo. Aneddoto che il filosofo francese racconta per ricordare, appunto, agli adulti che ciò che pensiamo delle cose influenza il nostro modo di vedere il mondo e che non dovremmo dare a nessuna di esse più importanza di quella che ha realmente. In particolare, non dovremmo consegnare a nulla e a nessuno il nostro destino: l’uomo mantiene sempre, in ogni momento, la facoltà di dare una sterzata al proprio avvenire personale e collettivo. Nessuna “legge” economica può farlo al suo posto, soprattutto quando tale “legge” non è che una invenzione dell’uomo fra le tante: nulla a che vedere con le leggi di natura immutabili ed eterne (come tipicamente le si immagina), niente di più di una regola del gioco in una sorta di Monopoli “a effetti reali”.
Che fare, in concreto? Come reagire all’intrinseca contraddittorietà dell’economia, che ha bisogno - come si ripete a ogni occasione - di fiducia, ma non fa altro che minarne continuamente la radice, allargando la forbice tra i ricchi e i poveri, rendendo incerto e instabile il lavoro degli adulti e l’orizzonte dei giovani, rinvigorendo la retorica della concorrenza e del profitto, dove ciascuno finisce per guardare l’altro con sempre maggior sospetto?
La risposta è semplice e complessa a un tempo, dice Bellet: la fiducia fra gli uomini - e, di conseguenza, nei giochi sociali che essi conducono insieme, come quello economico - può essere ottenuta solo tramite il rafforzamento delle relazioni tra gli uomini (ciò che passa, in primo luogo, per il riconoscimento del valore di tutto ciò che non ha prezzo). Qui l’ideale del comunismo, al di là dei fallimenti delle storiche “dittature del proletariato” può offrire una prospettiva rivoluzionaria in grado di riconsegnare all’uomo la speranza in un futuro che sia nelle mani dell’uomo (e non in meccanismi artificiali e astratti come quelli economici). Un comunismo memore ed edotto dalla storia, consapevole che il vero conservatore non può che essere un rivoluzionario: perché in un mondo che cambia, l’unico modo per salvare le cose è rinnovarle.
(«Pagina3», 20 aprile 2014)
lunedì 28 aprile 2014
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