Lavoro male comune, di Andrea Fumagalli, è un libro con il quale tutti dovremmo fare i conti, in almeno due sensi.
Nel primo senso, dovremmo fare i conti con un duro dato di fatto: dopo essere stati bombardati per decenni dagli slogan sulla “fine del lavoro” ad opera della tecnologia al servizio del capitalismo, assistiamo oggi all’avvento del “lavoro senza fine”, nel quale ogni spazio privato e personale viene colonizzato dagli imperativi della produzione (con le “email che ti raggiungono dovunque”, con il telefono che non puoi più spegnere se no ti accusano di esserti reso irreperibile, ecc.); in cui ogni aspetto della vita viene asservito alle esigenze dell’industria (dove perfino l’ozio viene sfruttato commercialmente) e dove l’età della pensione viene progressivamente spostata in avanti.
È sufficiente questo rovesciamento per dire che il lavoro sia diventato, in definitiva, un “male comune”? Fumagalli vuol puntare l’attenzione - con questa espressione ad effetto - sulla falsità di un luogo comune molto in voga: quello per cui il lavoro sarebbe un “bene” - e come tale scambiabile liberamente sul libero mercato - e per di più un bene comune. Ma si può veramente chiamare “libero” uno scambio che si è costretti a fare? È veramente libero colui che, se di punto in bianco si licenziasse, creperebbe di fame?
E qui, a partire dalle tante contraddizioni dell’attuale assetto del mondo del lavoro (l’autore si concentra specificamente sulla situazione italiana) e delle tante negazioni di fatto del diritto personale e collettivo (a cominciare da quelli sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948), si giunge al secondo motivo per fare i conti con questo testo snello ma pregnante. È il momento di fare due calcoli per capire quanto ci vorrebbe realmente per garantire il reddito di cittadinanza a tutti gli italiani (euro 7.200 all’anno pro capite): con 21 miliardi, secondo la stima dell’autore, ogni singolo cittadino potrebbe essere tirato fuori dall’incubo della povertà. Da finanziare come? Fumagalli avanza le sue ipotesi, realistiche e ben esposte, ma fate un po’ voi: meno F-35? Tassazione progressiva?
Si tratta forse di nostalgie comuniste? No, qui c’è ben di più: il rifiuto di un capitalismo che vuole appropriarsi dell’anima, oltre che del tempo di chi lavora. Si tratta di una scelta politica che dovremmo tutti pretendere subito, senza condizioni. Un’ambizione di quelle che possono dare speranza e gioia di vivere a un popolo intero. E che ha il fascino concreto delle cose che si possono realizzare davvero.
(«Il Caffè», 21 marzo 2014)
martedì 25 marzo 2014
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