sabato 2 febbraio 2013

Cosa fare delle nostre ferite?

È implacabile Michela Marzano (della quale abbiamo già avuto occasione di parlare: cfr. “Gli assassini del pensiero”, «Il Caffè», 20 luglio 2012) nel suo Cosa fare delle nostre ferite? La fiducia e l’accettazione dell’altro (ed. Erickson, 2012): dall’ossessione per la forma fisica alla moderna ansia del controllo (la delirante convinzione di potere - e anzi dovere - controllare tutto), fino a risalire alle radici dell’odierno bisogno di certezza e di sicurezza, figlio del dualismo cartesiano tra anima e corpo (oggi veicolato dalla filosofia analitica), la filosofa francese non risparmia niente e nessuno. Né la società, né gli intellettuali, né le tante mode e nemmeno noi stessi, quando accettiamo supini il nostro essere figli di questo tempo; fino a rivelare che ciò che si cela dietro tutta questa esigenza di padroneggiare le cose è il “mito dell’autosufficienza”: per il quale possiamo far tutto da soli, pur di crederci e di impegnarci a fondo per ottenerlo.

L’ansia di perfezione non produce altro che frustrazione. Ma in un mondo imperfetto, come il nostro, solo un uomo che accetta di essere a sua volta imperfetto può sopravvivere

Potrebbe magari sembrare bello (e c’è ogni motivo di dubitarne) se solo fosse vero: ma la realtà contro cui sbattiamo continuamente il muso ci mostra l’esatto contrario, e il risultato di questa retorica del “puoi tutto se lo vuoi” è che ci sentiamo continuamente inadeguati ad affrontare la vita, perché diamo a noi stessi (in quanto ci presupponiamo onnipotenti) la colpa di ogni fallimento. È la retorica demenziale e irritante dei film di Will Smith (e dei tanti come lui), quella della “fiducia in se stessi che permette di raggiungere qualunque obiettivo”, funzionale peraltro a un certo sistema ideologico (e al manipolo di farabutti che lo tiene in piedi) per far credere che questo sia il migliore dei mondi possibili (per far credere cioè, nel bel mezzo della crisi, che il licenziamento di un lavoratore sia colpa della sua inettitudine, che la povertà sia la giusta paga per chi non sa essere competitivo, ecc.).
Delirio che la Marzano stigmatizza come “il principio della maionese”: se la maionese “impazzisce”, è perché non hai seguito alla lettera la ricetta. Che è una negazione bella e buona del principio di realtà, la quale dà luogo a una doppia ripercussione: colpevolizzazione e sofferenza per gli uni, onnipotenza della volontà e manipolazione per gli altri.
Come uscirne? Un modo ci sarebbe, dice Riccardo Mazzeo, traduttore dal francese e curatore del volume (del quale anche abbiamo già parlato a proposito del suo libro scritto a quattro mani con Zygmunt Bauman). Si tratta di uscire dall’illusione un po’ ridicola di poter essere perfetti, imparando ad accettare le tante nostre imperfezioni, piccole e grandi. Solo così potremo integrarci in una realtà che è strutturalmente imperfetta (ma che comunque ci ospita pazientemente da milioni di anni), lontano dalla follia del rifiuto della realtà così com’è e dalla pretesa di costruircene una a nostra immagine e somiglianza.
Oggi - scrive Mazzeo nella sua Nota introduttiva - possiamo conseguire una maggiore umanità «non nonostante ma grazie alle nostre imperfezioni e a quelle degli altri». Perché più umani possiamo diventarlo davvero, e anzi ce n’è una grande urgenza; mentre Dio, con ogni probabilità, non lo saremo mai. Ed è meglio così.

(«Il Caffè», 1 febbraio 2013)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano