La morte: fine di ciò che è, passaggio al non-essere, chiusura della prospettiva, annichilimento. E la terra: vile oggetto del nostro calpestare, mero materiale da lavoro, null’altro che supporto alla tecnica e alla volontà di potenza che la spinge, niente più che polvere “alla quale ritorneremo”, per dirla in termini cristiani. Questo il senso comune dell’Occidente che ha legato il suo destino a quello della scienza e della tecnologia e che - come colui che cavalca una tigre - adesso non sa come fare per scendere (poi c’è anche chi - di fronte alla catastrofe umanitaria, ambientale, finanziaria - ancora non ne ha intenzione).
Ma la morte è tutt’altro: è, sì, passaggio, ma a una condizione nuova, anch’essa essente come tutto ciò che è (e che non può non essere, citando Parmenide, né cessare d’essere di punto in bianco, come sottolinea Severino); similmente, la terra è proprio all’opposto di quel ventre che fa spazio alla salma dei defunti: è il luogo della vita dell’Essere, che con lui permane e in cui si compie la Gioia di quanto esiste. Con una precisazione: non è l’uomo a entrare nell’eternità, bensì l’eternità ad avvolgere l’uomo da sempre e per sempre. L’eternità non può essere acquisita o addirittura conquistata, ma solo svelata.
La filosofia dell’instancabile Severino, ultraottantenne pensatore dalle spalle robuste e dalla schiena sempre dritta, continua la sua marcia rinnovata e coerente in direzione dell’eternità: perché l’essere - pur nel suo dispiegarsi storico - è destinato a ciò che dura per sempre e che supera enormemente “ogni più rosea aspettativa umana”. Ecco perché il nichilismo occidentale - radicato in una volontà di potenza che si abbevera alla sorgente di una becera “volontà di apparenza” - è votato al fallimento: il suo destino è rivelare la propria superficialità, cioè il proprio affermarsi unicamente in superficie, come una pellicola giustapposta alla realtà sempre a un passo dal venir via.
I temi trattati e certe volte anche il linguaggio utilizzato potrebbero indurre l’errata sensazione di aver a che fare con uno studio religioso (o peggio: teologico). Nulla di tutto questo: l’opera in questione è il tentativo di affrontare tematiche religiose (ma esistono poi simili cose, come quelle “religiose”, che non siano al contempo “umane” tout court?) con il rigore della filosofia, attenta in ogni istante tanto a ciò che dice quanto al fondamento di ciò che dice; e intenta ad argomentare la necessità del destino dell’uomo. Può darsi che la filosofia di Severino sia incompatibile con il cristianesimo tomistico, come si è tanto polemizzato; ma non si può negare la grande affinità tra i due, soprattutto in termini di sensibilità: l’ampiezza dell’orizzonte severiniano e il suo slancio nel trascendere lo scenario “di questo mondo” sono un salutare, benvenuto e probabilmente necessario antidoto alla banalità di una cultura planetaria concentrata ossessivamente sulla temporalità e sull’accelerazione. Da leggere e da meditare in una splendida edizione Adelphi della collana Biblioteca Filosofica.
E. Severino, La morte e la terra, ed. Adelphi, 2011, pp. 558, collana “Biblioteca Filosofica”, euro 52.
(«Pagina3», 21 giugno 2012)
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